LE SCARPE DI GREGOTTI

LE SCARPE DI GRE GOTTI LE SCARPE DI GRE GOTTI // bello e il vero in architettura IL titolo del libro di Vittorio Gregotti, Le scarpe di Van Gogh, si riferisce alle discussioni sull'origine dell'opera d'arte causate da un saggio scritto da Heidegger dopo aver meditato sul quadro di Van Gogh «Vecchie scarpe con lacci». Si assapora subito l'aria che circola in questa raccolta di testi, lezioni universitarie, conferenze, articoli pubblicati su Casabella. Un'aria densa di riflessioni teoriche che intrecciano architettura e letteratura, filosofia, arti visive, politica. Gregotti scrive col gusto dell'impegno intellettuale. Usando un linguaggio mille miglia lontano dall'architettese, ma a tratti di non agevole lettura, pone questioni che hanno il tono di affondi improvvisi. Cito un interrogativo non da poco: «La dicibilità della verità in architettura». E poi: «Di quale natura è la necessità che costruisce la verità?». Le citazioni frammentarie sono spesso causa di infedeltà. Qui si impongono per offrire almeno l'idea approssimata di un insieme molto complesso, in cui si trattano raramente esempi di architettura contemporanea esaminando invece le idee e i fenomeni (compresi quelli di natura economica e sociale) che stimolano o bloccano l'attività creativa dell'architetto-maestro, apparentemente estraneo alla produzione di massa. Il capitolo sui compiti della critica offre alcuni passi severi: «Naturalmente lasciamo da parte l'inutile categoria di chi costruisce i progetti a partire dalla critica o dalle sue ipotetiche reazioni». Altra puntata: «Uno dei gradini principali della carriera di un architetto è la disponibilità della propria opera nei confronti della critica». Le riflessioni di Gregotti si estendono, con ricchezza di citazioni e di riferimenti letterari (vedi le «Lezioni americane» di Calvino) allo stato delle idee in architettura. Troviamo un elogio di virtù dimenticate o trascurate dagli architetti di successo: la precisione, l'organicità, l'ordine. «Tutti confondono disordine e ricchezza creativa, pensano che la precisione sia noiosa, cercano di sfuggire alle regole della tradizione, della disciplina». Quel «tutti» è forse eccessivo, ma l'elogio dell'ordine e della tradizione acquista un valore particolare, tanto più quando è fatto in merito al disegno urbano, al dialogo con l'esistente e perciò alla progettazione nei Centri Storici, quando sorregge l'attacco agli architetti «che tendono a rifugiarsi nell'autonomia dei giochi linguistici, a esercitarsi in assonanze ed esperimenti di calligrafie o in una imitazione del comportamento degli artisti visuali». La severità dei giudizi è evidente nelle conclusioni, dove si parla ironicamente di «concorsi di bellezza fra gli architetti», di tendenza a spettacolarizzare l'attività di pochi. «Si rinnovano le mode, i revival, i colti riferimenti extradisciplinari... eppure tutto resta immobile, sempre più malsicuro, sempre più provvisorio, sempre più inadatto, nella malinconica indifferenza dell'ottimismo televisivo: dentro una grande bonaccia» (ancora Italo Calvino). Amaro l'esplicito riconoscimento della mancanza di slancio, di un respiro complessivo, che caratterizza l'architettura contemporanea. «Essa sembra soffrire di un avvilimento diffuso, di una ingiusta rassegnazione». Da segnalare, mime, l'invito a «opporsi allo sgretolamento della costruzione storica del nostro ambiente». Viene da un architetto scrittore che non è sospettabile di idolatria del passato. studiosi di Leonardo, nel saggio La scienza dell'arte (Giunti, pp. 426, L. 120.000) sostiene l'equivalenza della creatività nell'arte e nella scienza, la loro comune identità nell'essere orientate alla realizzazione di oggetti comunicativi che differiscono soltanto rispetto ai loro strumenti e scopi funzionali, attraverso l'analisi della teoria prospettica, da Brunelleschi a Seurat, fondata sulla scienza dell'ottica geometrica, seguendo poi l'evoluzione della teoria della percezione e infine di quella dei colori, dalla dottrina newtoniana fino al progetto impressionista di «dipingere con la luce». Il tema di Kemp è ripreso e applicato all'arte contemporanea da Giorgio Celli che, nel saggio Oltre Babele, muove dal presupposto di una nuova alleanza tra la cultura scientifica e quella artistica, tra l'aspetto cognitivo e quello emotivo. Sintomatiche a questo proposito sarebbero, da un lato, la predilezione di Einstein per le qualità estetiche di un'equazione, dall'altro, la corretta osservazione astronomica che presiede alla Notte stellata di Van Gogh. Come già sosteneva Kenneth Clark, «il microscopio e il telescopio hanno tanto allargato il campo della nostra visione, che la piccola natura sensibile che possiamo vedere con i nostri occhi ha cessato di soddisfare la nostra immaginazione». Elaborando questa osservazione, Celli propone una tesi originale e persuasiva: l'arte astratta non ha tagliato i ponti con la realtà, ma l'ha indagata nella sua anatomia microscopica, oltrepassando i limiti percettivi dell'occhio. L'astrattismo sarebbe così una forma di iperrealismo fondata sulla maggior potenza e accuratezza dello sguardo tecnologico rispetto all'occhio fisiologico. Celli individua l'origine di questo mutamento paradigmatico a metà Ottocento, quando la scienza esce dai laboratori ed entra nei salotti, viene riconosciuta e utilizzata in ambiti intellettuali più vasti. Con la crisi dell'estetica naturalista viene Due Van Gogh, «Autoritratto» e (a destra) «Nolte stellata»