Fu così che Petrolini compatì anche il Papa

F Un inedito ritratto di Fiorentini, e un recital Fu così che Petrolini compatì anche il Papa ROMA. Ettore Petrolini con «Gastone» e «I salamini» sta rivivendo, quest'estate, in una serie di recital che gli dedica Fiorenzo Fiorentini, che con il grande comico ebbe lunga frequentazione. Con Ghigo de Chiara, l'attore nel '71 scrisse «Petrolini, biografia di un mito»; rappresentato al teatro delle Muse, segnò l'avvio di un filone di pubblicazioni su questo personaggio. Al suo nome Fiorentini ha anche intitolato una sala dove da anni svolge regolari stagioni con la sua compagnia, «presentando non tanto testi petroliniani quanto lavori ispirati a quella comicità demenziale che oggi il mondo applaude, ma che Petrolini aveva intuito fin dall'inizio del secolo». C'erano, negli Anni 30, tre ragazzini che stavano sempre insieme: Oreste Petrolini, Marcello Tieri (figlio dello scrittore Vincenzo, che fu autore personale di Ruggeri, e fratello di Aroldo), Fiorenzo Fiorentini. E avevano libero accesso al Quirino, dove Petrolini recitava. «Anche se me ne sono accorto tanti anni dopo - racconta Fiorentini - fu una replica di "Benedetto fra le donne" a farmi decidere di fare teatro. Il direttore del Quirino aveva cacciato Marcello e me - Ettore quella sera non c'era - per mancanza di posti. Petrolini gli chiese di ospitarci nelle quattro poltrone che normalmente gli erano riservate. Ci accomodammo, un posto libero a destra e uno a sinistra. A un certo punto lui, dal palcoscenico, cominciò a parlare dei ragazzini a teatro ("non stanno mai fermi, scalciano, guardate quei due in prima fila, per loro bisogna sempre comprare un posto doppio", continuamente improvvisando battute sulla necessità di portarli a vedere spettacoli ("sono attori nati, recitano sempre, giocano con la fantasia"). In modo scherzoso, spiegava qualcosa di molto serio: che il teatro è un biso¬ gno innato nell'uomo, non una sovrastruttura. Al centro dell'attenzione, non so se in Marcello e in me fosse superiore l'imbarazzo o la gioia». Com'era la casa di Petrolini? «L'ultima, in via Maria Adelaide, era bellissima; ricordo maschere della commedia dell'arte, quadri con i Pulcinella di Tiepolo, alcune sculture di Gemito, una collezione di bastoni (tipica civetteria Anni 30) e una biblioteca con parecchie migliaia di libri. Petrolini era un autodidatta con una cultura sterminata». I suoi amici? «Li amava molto, ed era anche polemico. Per esempio Gastone, emblema di vacuità, gli fu suggerito dall'attore e regista Mario Bonnard. Passavano ore a discutere e giocare a scopone, o a tressette, nel retrobottega di un altro amico, l'antiquario Vladimiro Apolloni, in via Frattina». Il genere di persone che detestava? «I conformisti. Quelli che, appunto, comprano i salamini, la cosa più banale del mondo, ma se ne vantano come di un'impresa. Era insofferente pure con elli parlava forbito, a frasi fatte. Una volta, nella sua piccola casa di Castel Gandolfo, andò a trovarlo un prelato, il quale tesseva gli elogi della sua "dimora così bella". Lui rispose compunto che sì, c'era anzi un vantaggio persino sulla residenza del Papa. Perplesso, il monsignore gli chiese quale. "E' che affacciandoci io vedo la splendida dimora estiva del Papa, lui invece vede la mia casetta", ribatté». Lo ha mai visto veramente arrabbiato? «Una sera andò al Marc'Aurelio e praticamente sfasciò la redazione. Ma fu un caso isolato. Con gli imitatori, invece, se la prendeva sovente. A volte finiva gli spettacoli prima per infilarsi in qualche teatro dove qualcuno di loro si esibiva; alla fine saliva in palcoscenico e li prendeva a bastonate. Lo indignava il successo di un genere basato sul non inventare nulla, sulla mancanza di creatività». Si può leggere in questa chiave la comicità di Petrolini? «Certamente, basti citare "Nerone", satira della gente che applaude sempre e comunque il dittatore di turno, appena apre bocca. Ma non c'è soltanto questo: lui aveva capito che il linguaggio continua a depauperarsi di senso, è sempre più logoro. Un'intuizione che sarebbe stata esplicitata da Musil, Joyce, dal cabaret tedesco e dallo stesso Brecht, fino al sublime Beckett. Proprio questa fu la lettura che ne diede Calenda, quando lo mise in scena con Mario Scaccia e me». E' vera, la famosa frase «Che vergogna morire a 50 anni»? «Sì, la vergogna era cedere. Durante l'intera malattia, angina pectoris, spesso chiedeva: Che dici? Vincerà lei o vincerò io?". Anche con la morte era una lotta. Tutte le sue conquiste erano state molto dure. Prima del '33, quando con "Medico per forza" di Molière, in italiano, conquistò la Comédie Frangaise, aveva lavorato in café chantant infami. Nel suo primo contratto, al Gambrinus di piazza Esedra, il suo ruolo veniva definito "buffone"; si impuntò e pretese aveva 16 anni - che fosse invece qualificato con la parola "buffo"». Ometta Rota A sinistra Petrolini, sopra Fiorentini

Luoghi citati: Castel Gandolfo, Roma