Con i croati che tornano a Knin «Serbi ora è il vostro turno»

Con i croati che tornano a Knin «Serbi, ora è il vostro turno» Con i croati che tornano a Knin «Serbi, ora è il vostro turno» REPORTAGE NELLA TERRA DELL'ODIO ZARA DAL NOSTRO INVIATO Il paese di Ervenik è davvero molto bello. Era molto bello, almeno. Lo descrivono come un antico villaggio dalmata proteso verso il mare, una lunga fila di case eguali, in pietra bianca, allineate sulla strada principale che tenevano ad altezzosa distanza una periferia brutta e moderna abitata in prevalenza da contadini serbi. La casa di Pero era l'ottava a sinistra, subito dopo la trattoria. «Adesso mio figlio mi dice che dov'era la gostionica ha trovato un enorme cartello con su scritto kohoba, dov'era la chiesa ha visto un teatro, e dov'era la nostra pensione non ha visto nulla». La casa di Pero, al secolo Petar Mikevic, 64 anni, di professione tassista, non esiste più se non nelle mura. Eppure lui vuole vederla quella casa, non vede l'ora che l'esercito croato dia ai vecchi profughi dalle Krajine l'autorizzazione a sostituirsi ai profughi nuovi. Aspetta solo di tornare nei posti e nelle terre che altri rifugiati gli avevano tolto e adesso i rovesci della guerra hanno strappato anche a loro. «L'ultima volta che ho visto quella casa, sulla Partizanska Ulica numero 16, mancavano sei giorni a Natale, il Natale del 1991. C'era la neve alta, mi ricordo che mentre caricavo le nostre cose in auto stupidamente pensai: bisognerà che qualcuno tolga la neve dal tetto». Qualcuno deve averla tolta quella neve, negli inverni successivi, e già che c'era ha tolto anche molte altre cose. La strada era dedicata ai partigiani come molte delle vie principali nella vecchia Jugoslavia, i serbi l'avevano ribattezzata «Jovana Draskovica» dall'eroe cetnico della seconda guerra mondiale, quello che fino all'ultimo tentò di contestare a Tito la guida del movimento partigiano e dai titini fini fucilato. I cartelli adesso sono stati staccati, gli incursori croati li fissano ai carri armati esibendoli come trofei. Pochi giorni ancora e la vecchia via dei partigiani comunisti, poi dell'anti-partigiano cetnico, diventerà via del re Tomislav, Dalmatinska Ulica o passeggiata dell'Hayduk. I nomi in fondo contano poco, sono le persone a essere più importanti: e quello che adesso a Petar, detto Pero, piacerebbe molto incontrare sono le persone che quattro anni fa lo scacciarono, l'umiliarono, gli strapparono tutto e poi tentarono di cancellare qualsiasi traccia del suo passaggio. Racconta che quattro anni fa sull'ingresso della casa il nome «Mikevic» era inciso su un targhetta di ceramica blu. Adesso su un cartello sempre blu, ma molto più grande, era scritto in cirillico «Srpska Zajednica», comunità serba di mutua assistenza. «In quella fine del dicembre '91 sulla strada che scendeva verso Obrovac e Zara molte famiglie erano già state fermate, tenute a bada con le armi, depredate. Il mio amico e vicino Ivo Zilic si era ribellato quando un bastardo in giacca mimetica già aveva sfilato l'autoradio dal cruscotto della Opel, e prima di farlo ripartire pretendeva che sua moglie consegnasse tutte le gioie che aveva nella borsetta. L'hanno ammazzato con un colpo solo, dev'essere sepolto ancora li, sulle colline». Pero scese con moglie, tre figli e una decina di valigie stipate nella Mercedes diesel eh famiglia. L'auto di Mario, il maggiore, un'Alfa turbo comprata ad Ancona, era già stata sequestrata da Jovica Krstic, un ragazzo che come lui aveva solo diciannove anni. «Fino a un paio d'anni prima andavano al mare assieme in motoretta, corteggiavano le stesse ragazze e portavano gli stessi capelli da idiota, rapati fino in cima. Gli sarebbero venuti buoni per il servizio militare: Jovica era serbo, e fin dall'ottobre del '91 coi primi scontri si scoprì l'anima del cetnick». Due settimane fa, quando mi aveva portato da Spalato a Tar- cin, anticamera di Sarajevo, il tassista Petar Mikevic era un uomo basso, grasso e rassegnato. Lungo la strada aveva raccontato la sua vita di rifugiato, dei dolori, della fatica di ricominciare tutto a 60 anni. Oggi è soltanto un uomo basso e grasso. Ha ricevuto una chiamata dalle Krajine l'altra notte, con le prime notizie su quanto gli è rimasto. Un figlio, quel Mario dell'Alfa turbo, l'ha perso l'anno scorso, era scampato alla guerra solo per morire in un incidente stradale. L'altro, Niki, è nella settima «Gardjska brigada» e due giorni fa a forza di bombardare i serbi di Krajina è tornato ad Ervenik, 30 km a Ovest di Knin. A casa. Oddio, tornato: l'ha soltanto rivista, perché pare che fra le colline e la costa ancora si annidino sacche di resistenza serbe e dunque non ci sia tempo per visite approfondite. «Niki se l'è cavata, hvala Bogu, e grazie a Dio anche la casa è ancora in piedi: ma lui che c'è entrato, mi ha detto com'è ridotta, non c'è più nulla, neanche uno dei nostri mobili, neanche la cucina. Quei maiali hanno devastato tutto...». Petar parla della fuga di quattro anni fa e gli occhi gli si inumidiscono più di quando ricorda il figlio perduto. «Io vengo da Imotski, è mia moglie che aveva casa nelle Krajine... Ma quali Krajine, aveva casa, abbiamo casa in Dalmazia. Poi vent'anni di lavoro in Germania, prima commesso poi proprietario di un negozio d'abbigliamento. Quel po' d'italiano che parlo l'ho imparato allora: corto, lungo, molto bello, deve aggiustare... Coi soldi ero tornato a Ervenik, avevamo rimesso a posto la casa di mia moglie, aperto la trattoria con sobe, le camere per i turisti. Splendido lavoro. Per dieci anni di là passavano tutti i tedeschi e gli italiani che da Zara volevano visitare l'interno, Knin, i laghi di Plitvice». «Era un momento incredibile, quello dell'inverno del '91. Vedevi gente che fino al giorno prima ti aveva quasi servito e di colpo diventata arrogante, poi aggressiva. Due ragazzi della mia trattoria non vennero più al lavoro, verso la fine di novembre. Una settimana dopo traversavano la città su fuoristrada rubati e coi mitra in pugno gridavano: "Questa è la sacra terra dei serbi". Noi fummo fortunati, in fondo, ce ne andammo fra i primi con poche valigie e un'auto. Ma quell'auto poi mi ha consentito di tirare avanti e Srecko Badurina, il vescovo di Sebenico, ha pensato a noi trovandoci una casa». Per quattro anni la casa di Petar Mikevic e di sua moglie è stato il sottoscala di un brutto palazzo moderno, alla periferia di Zara. A un passo dall'hotel Kolovare che ancora trabocca di profughi delle Krajine. A 6 km dalle linee serbe che ogni tanto, giusto per ricordare chi comandava, tiravano due granate sulla città. Ma intanto ad Ervenik cosa accadeva? «So soltanto quello che mio figlio ha potuto dirmi per telefono. Non c'è più nessuno, in paese: i croati erano scappati quattro anni fa o sono stati eliminati dopo, i serbi adesso sono fuggiti come conigli, una banda di conigli e di ladroni. Niki mi ha detto che i cartelli erano tutti in caratteri cirillici, che in una casa hanno trovato un sacchetto di plastica pieno di krainski dinaro., la nuova moneta della Repubblica serba. Carta straccia». «La chiesa di Ervenik non esiste più. Era bella, povera: adesso sembra che al posto dell'altare ci sia un piccolo palcoscenico di legno, e dov'era il crocifisso due diffusori acustici. A Obrovac in una casa del centro c'era ancora il vecchio Josip Markovic. Me lo ricordo, adesso avrà settant'anni, era un mio cliente, aveva una moglie serba che lo faceva martire. Adesso lei è scappata, lui è rimasto in casa ad aspettare i nostri e sembra abbia detto: se vuole tornare sono qua, se non torna è anche meglio». «Sì, se non torna è meglio. E sarà molto meglio se una volta a Ervenik, quando avremo lasciato la topaia in cui siano rimasti per quattro anni, non tornino né si facciano rivedere i vari Jovica, Olja, Dragan, Zjvko. Non )o so, forse fra i serbi qualcuno si comportò bene anche quattro anni fa, ma sai com'è, la sofferenza certe volte acuisce la memoria, certe altre l'offusca». «Mi chiedi se bombardando Knin i nostri hanno ammazzato dei civili? Mi chiedi cosa sarà dei nuovi profughi serbi? Scusa, amico mio, ma cosa vuoi che me ne freghi? In vecchiaia per colpa loro ho dovuto vivere quattro anni infami: che adesso se ne vadano, che fuggano, che arrivino fino al Mar Nero. Quella è casa mia. La mia terra. E se un altro venisse a togliermela, adesso dovrebbe ammazzarmi. Se l'ha persa, che si ammazzi lui». Giuseppe Zaccaria «L'ultima volta che ho visto casa mia era il Natale del '91 mentre fuggivo, pensai: chi toglierà la neve dal tetto?» «Per colpa loro ho vissuto 4 anni da cani, che crepino pure non me ne importa niente» Il trionfo dei militari croati davanti alla filiale della banca di Jugoslavia a Knin A destra una donna croata bacia la mano di un soldato

Persone citate: Giuseppe Zaccaria, Josip Markovic, Krstic, Pero