Profughi ora tocca ai serbi

Profughi, ora tocca ai serbi Profughi, ora tocca ai serbi Ventimila in fuga tra bombe e terrore sMmmmmwM 111 LA FRONTIERA DELL'ODIO PUKOVO SELO DAL NOSTRO INVIATO Per chiare ragioni simboliche molti grandi incontri della storia si sono svolti sui ponti: il ponte di Trzacka Bastela in realtà è poca cosa, un ponticello, poco più di un passaggio su un torrente che si chiama Korana. Eppure lì sopra, ieri, si è compiuto un evento che segnerà il resto della guerra. Atif Dudakovic, comandante del quinto «Corpus» bosniaco ed il generale croato Ante Marekovic si sono incontrati sul ponte, si sono stretti la mano ed hanno presentato l'un l'altro i propri stati maggiori. In quel momento esatto - erano circa le tre del pomeriggio l'esercito di Sarajevo e quello di Zagabria celebravano l'unione delle proprie forze sul terreno. Negli stessi attimi per migliaia di serbi delle Kraijne scattava il momento della ritirata, della rotta, dell'esodo. Da ieri non solo le Krajine ma l'intera Bosnia occupata dai serbi rischiano di essere tagliate in due. Sono molte decine i cittadini di Knin morti sotto i bombardamenti, centinaia quanti si consegnano, migliaia quelli che fuggono verso Prijedor e Banja Luka cercando la protezione di «fratelli» che pure li hanno abbandonati al loro destino. «Impedite il genocidio dei serbi», grida adesso Milan Babic, l'ex poliziotto che da tre anni tutti i giornali del mondo definiscono fra virgolette primo ministro delle Krajine: ma intanto è prudentemente riparato a Belgrado. «Ci sono 24 mila profughi alla mercè dei cannoni croati», grida la televisione di Banja Luka. Le immagini dei rifugiati da Srebrenica sono ancora troppo recenti perché un simile appello possa smuovere gli animi, le sequenze che si sono potute vedere per ora mostrano povera gente che ammassata su camion aspetta rassegnata la fine della tempesta. Il senso delle migrazioni però comincia a invertirsi, mutano confessione, militanza anche se non lingua né condizione di chi è costretto a fuggire sotto il rimbombare delle granate e adesso non si fida del vincito re. Tudjman continua a garan tire l'amnistia per tutti i civili serbi che resteranno nelle loro case ma quelli fuggono, sapen do bene di avere un debito col lettivo troppo alto da pagare. Entreremo fra poche ore, nella Kraijna liberata: fino a questo momento l'esercito croato ha impedito ad ogni telecamera, a qualsiasi portatore sano di occhi e taccuino di arrivare e descrivere. «E' ancora troppo pericoloso - dicono da Zagabria - ci sono scambi d'artiglieria, piccoli nuclei di resistenza». Se rilucidatura etnica è in corso sarà difficile trovarne traccia, per il momento passano solo «reportages» della tv di Stato. Ed oltre a giovanissimi ed euforici soldati o stanchi guerrieri che celebrano il ri¬ torno a casa, questi mostrano vecchi che piangono felici per la liberazione, pattuglie che percorrono le strade in stile americano, due file ben distanziate e mitra sul fianco, caschi e divise degni di un «Balkan Storm». Segnano lo sfarinarsi di un mito, queste sequenze: non tanto il valore dei rudi e sanguinari guerrieri ortodossi ma l'infrangibile solidarietà che si diceva li unisse. L'offensiva croata marcia molto più velocemente di quanto- gli stessi strateghi di Zagabria pensassero e dalla marca di confine, dalla terra dell'epica e del sacrificio i serbi fuggono come lepri. Quel che resta del loro settimo «Corpus» ha fatto saltare qualche fabbrica ed un po' di installazioni militari, ma le case di Knin sono state trovate con le chiavi ancora nella toppa, i cassetti aperti, le radio accese. Assieme con la credibilità del ricatto di missili e obici si scardina il mito della «zàdruga», marmorea comunità di affetti e interessi che finora aveva tenuto assieme il folle sogno dei Babic, Karadzic e Mladic di queste colline. Il processo di decomposizio¬ ne è appena agli inizi e già lascia affiorare frammenti straordinari, delinea storie nelle storie, schegge di follìa che si sommano alle altre. Per esempio, l'incredibile situazione di un esercito in vendita. I settemila uomini della «Narodna Odbrana», la difesa popolare di Fikret Abdic, da ieri sono sbandati fra gli sbandati, musulmani inseguiti dai correligionari, traditori di due eserciti pronti a tradire per una terza volta. Non so se ricordate chi sia Abdic; i sanguinosi profili di altri capobanda balcanici hanno fatto stingere il suo molto presto. Come musulmano, miliardario, potentissimo uomo d'affari (la «Agrocomerc», maggiore impresa agricola della ex Jugoslavia, è sua) aveva conteso tre anni fa ad Aljia Izetbegovic l'elezione a presidente della Bosnia. Poi, aveva cambiato alleanze. Dalla fine del '92, in quella sorta di terra franca che è stata la sacca di Bihac i musulmani di Abdic avevano combattuto coi serbi contro le truppe di Sarajevo. Trenta chilometri a Nord di Bihac c'è Velika Kladusa, la città di Abdic, il luogo dominato dal suo incredibile castello. Da quella città uno dei maggiori «tycoons» dei Balcani aveva vagheggiato a lungo la nascita di una provincia autonoma, quasi una nazione. E tutti gli altri gliel'avevano lasciato fare. Nell'«Autonomna Pokrajina» della Bosnia dell'Est (il territorio di «Babo» Abdic) avrebbero dovuto sorgere alberghi e casinò, centri termali e chalet affacciati sul lago. Una sorta di gigantesco porto franco dove Abdic ed i suoi avrebbero potuto proseguire la principale attività di questi incredibili anni: quella di trafficanti armati. Col suo «esercito» fino a ieri Fikret Abdic ha gestito un gigantesco mercato nero cambiando ogni volta alleato, mettendo ogni volta la sua armata al servizio di un nuovo padro¬ ne, fornendo armi e vettovagliamenti prima ai bosniaci, poi ai croati, infine ai serbi delle colline. Adesso le divise mimetiche dei suoi settemila fedelissimi si confondono con quelle dell'Armata di Krajina e dei civili che in lunghe file si dirigono verso la Bosnia centrale. Negli ultimi tempi (soprattutto dopo il «blitz» croato di maggio, in Slavonia) i rifornimenti per i serbi di Knin si erano assottigliati, molta gente per vestirsi era stata costretta a indossare le tute smesse dai soldati. Da Mostar cominciano a partire appelli che paiono ultimatum: «Arrendetevi - dice Kresimir Zubak, presidente della federazione croato-bosniaca -. Passate con noi e non vi verrà torto un capello». Il generale bosniaco Dudakovic, quello dell'incontro del ponte, intima: «Se vi consegnerete sarete trattati con clemenza, altrimenti guai a voi». Dicono che qualche centinaio di miliziani si sia già messo nelle mani dei croati. Quel che resta dell'esercito privato di un miliardario già mostra di trasformarsi in una sorta di armata cosacca, banda disperata di reduci che come cinquantanni fa in un'altra «krajina», quella friulana, può scegliere solo fra la decimazione o la resa. Chissà qual è la scelta migliore. Giuseppe Zaccaria 10, MLADIC, DIS0BBEDISC0 «La mia destituzione dalla carica di capo di stato maggiore decisa dal presidente Karadzic è illegittima, lo resterò a combattere con la carica di capo dell'esercito della Repubblica serba fintanto che il popolo ed i combattenti mi sosterranno e fino alla vittoria» Generale Ratko Mladic 17000 pretoriani dell'alleato Abdic vagano in cerca di un nuovo padrone

Luoghi citati: Balcani, Belgrado, Jugoslavia, Sarajevo, Slavonia, Zagabria