Mascagni sfrattato dal Plaza e salvato dal Papa

16 la memoria. Moriva 50 anni fa ignorato da tutti Mascagni, sfrattato dal Plaza e salvato dal Papa NROMA ELL'ATRIO del vecchio Hotel Plaza è uno spettacoloso leone di marmo, ac I quattato svogliatamente ai piedi dello scalone liberty che si avvita verso i piani superiori. Molte generazioni di bambini succedutesi negli anni, piccoli ospiti di quell'albergo, l'hanno cavalcato con piacere. La criniera del leone del Plaza somigliava alla chioma scarruffata del più illustre dei suoi clienti stabili, la capigliatura «proverbiale» di Pietro Mascagni che abitava la suite al primo piano. Al principio dell'estate del 1944, che per Roma significò qualcosa di straordinariamente importante, la fine dell'occupazione tedesca, la testa di Mascagni era ancora veramente leonina. L'anno successivo l'autore di Cavalleria moriva in quella suite in una data assolutamente sbagliata. La guerra di liberazione era appena terminata anche al Nord e nessuno aveva voglia di celebrare la scomparsa di un compositore, anche se geniale e famoso, il quale nel Ventennio aveva celebrato il fascismo con l'esuberanza che gli era congeniale. Aveva persino montato la guardia d'onore vestito d'orbace e con un fuciletto da moschettiere sul portone eli Palazzo Venezia. Ma se qualcuno che non lo amava, Toscanini per esempio, gli poneva a confronto la non compromissione dell'altro grande musico toscano, Puccini, Mascagni ghignava nel fumo del suo sigaro. «Puccini (morto nel '24, ndn se fosse vissuto sarebbe stato molto più fascista di me; ma non vi sarebbero state ragioni perché Lui lo nominasse Accademico d'Italia come fece con il sottoscritto». Che la sua uscita di scena sarebbe avvenuta in un'ostentata pubblica indifferenza (altro che funerali di Stato come per Verdi), questo lo aveva già messo in conto proprio a partire da quella notte di giugno del '44: la notte fra il 3 e il 4, quando i tedeschi abbandonarono Roma e le avanguardie degli Alleati fecero capolino proprio da piazza Venezia, poco dopo mezzanotte. Il dramma di quell'avvicendamento di eserciti si concentrò proprio nella hall del Plaza, sotto i piedi di Mascagni. Intanto nella sua stanza da letto la moglie Lina chiedeva in un tenace lamento che ne fosse del nipotino Piero arruolatosi con i battaglioni «M» impegnati in Istria nella guerra contro i titoisti. Nella hall, dalle 4 del pomeriggio, sfilarono figure, figuri e controfigure di quel tragico scenario che era stata Roma-città-aperta. Il primo ad andarsene, pletorico e rumoroso, fu il questore Pietro Caruso che aveva abitato al Plaza con la famiglia (sua figlia Vana sarebbe diventata la moglie del pittore comunista Giulio Turcatol. Caruso non andò molto lontano. Il piccolo corteo delle sue auto fu bloccato sulla Salaria poco fuori da Roma, Camso tentò di fuggire, cadde da un muro rompendosi una gamba. Venne fucilato tre giorni dopo a Forte Boccea. Altri vennero a congedarsi da Mascagni. Il feldmaresciallo Kesselring, che negli ultimi tempi aveva intensificato la spola tra il fronte di Cassino e il suo appartamento al Plaza; Mascagni lo ricevette freddamente. Non gli perdonava di essere stato costretto due sere prima ad apparire nel grande salone e assistere in prima fila, seduto accanto al feldmare- sciallo, a un patetico concertino in suo onore. Star della serata un giovane cantante che sarebbe diventato famoso al primo Festival di Sanremo, in coppia con Nilla Pizzi, Gino Latilla. Si sgolò in un terrificante «Lola che hai di latte...». E poi l'attore Ruggero Ruggeri con la sua amante Ja Ruskaja, grande ballerina e coreografa. Essendo uno di quei bambini che nella storia del Plaza hanno cavalcato quel leone, e avendo avuto in sorte di poter circolare in quei mesi tenibili nelle stanze del Maestro, mi accadde di assistere ancora a una scena rimasta a galleggiare come il relitto di una rèverie fantastica per tutto questo tempo, nel fondo della memoria infantile. E a comprenderne il senso dopo tanti anni. Il cameriere personale Filippo, verso le 7 di sera, introdusse due militari che salutarono con il braccio levato. Gesto fin troppo enfatico date le circostanze. Tanto più che uno dei due ufficiali nella divisa delle Brigate Nere era Mimi, il figlio maggiore di Mascagni. L'altro aveva una benda nera sull'occhio sinistro e una zazzera alla paggio sotto il basco della Decima Mas. «Che succede Mimi?», chiese Mascagni affondato nella sua poltrona. Senza avanzare nella stanza - il che accresceva il «melò» della situazione - il figlio annunciò che andava al Nord a difendere l'onore d'Italia. Mascagni rimase immobile, le mani sottili che arpionavano i braccioli di quella poltrona. Più che un saluto tra padre e figlio in circostanze così drammatiche sembrò una pantomima dove tutto risultava stralunato, metafisico come in uno spettacolo di «tableaux vivants» o in quei dipinti iper-realisti esposti a Kassel qualche anno addietro. O il David pittore estasiato degli Orazi e Curiazi. Il grande vecchio assiso, i due giovani (o quasi giovani) guerrieri... Fu il cameriere Filippo a ricondurre tutto alla domestica precarietà dell'ora. «Stia tranquillo - disse a Mimi -. Il Papa manda ancora ogni giorno panini al burro e uova: e si interessa alla salute del Maestro e della sua signora madre...». Mimi e il suo ta- citurno compagno uscirono senza aggiungere nulla. Verso mezzanotte con Luigi Esposito - destinato a diventare famoso nella Prima Repubblica come grande concierge del Plaza, ma allora era soltanto un guizzante liftie, il ragazzo dell'ascensore - nascosti dietro due poltrone vicine al «ricevimento» spiammo l'ingresso di una pattuglia di esploratori americani con in mano revolver e torce abbacinanti, perché Roma in quelle ore di guerra era sprofondata ancora di più in un buio da tregenda. Il loro capo chiese se vi fossero tedeschi e fascisti nell'albergo: domanda piuttosto retorica a cui il portiere, che era un vecchio portiere e ne aveva viste di tutti i colori, rispose con qualcosa di estremamente comico, quasi fosse una gag: qualcosa come «no, i signori sono partiti». Poi il capo di quella pattuglia, seguito da un altro che lasciava anelli di fango sulla guida rossa, salì fino alle stanze di Mascagni e non ebbe bisogno di bussare perché Filippo spalancò l'uscio. Quel capopattuglia aveva con sé una specie di lista: la hall del Plaza era stata sino a poco prima frequentatissima da spioni e voltagabbana. Lo vedemmo uscire pochi minuti dopo e trattenersi ancora sulla porta con rumorose entusiastiche effusioni. Mascagni fu lasciato tranquillo per tre giorni. Poi il Plaza fu occupato da ufficiali francesi, molto eleganti; e allora rischiò di essere scacciato dall'albergo che era stato la sua casa per tutto quel tempo. «Perché - dissero i francesi - noi abbiamo vinto la guerra e Mascagni no. Anzi». A quel punto intervenne ancora una volta papa Pacelli, sicché Mascagni rimase indisturbato nella sua suite. Sino all'anno successivo, quel 2 agosto 1945, in cui se ne andò quasi del tutto ignorato. Soltanto l'Unione Sovietica diede grande risalto alla sua scomparsa. La radio interruppe i programmi e la Pravda uscì con un titolone. Ma vi è anche da dire che, musicalmente parlando, il silenzio è spesso più forte di qualsiasi grande rumore. Vanni Ronsisvalle Pio XIIgli mandava panini e uova in hotel I suoi ultimi mesi nel racconto d'un testimone Un grande della musica, compromesso con il fascismo Sopra, Pietro Mascagni, e a lato il compositore fra i cantanti dopo la prima del «Marat», nel 1921 Sotto, il feldmaresciallo Kesserling