Pechino fa sapere pronti a invadere Taiwan

Pechino fa sapere: pronti a invadere Taiwan Dopo le esercitazioni missilistiche al largo dell'isola, la Cina torna a minacciare Taipei Il giornale dell'esercito: non aspetteremo che abbia l'Atomica UNA FERITA ANCORA APERTA OTTO anni sono stati necessari perché Pechino e Taipei imparassero a sillabare le prime parole di un dialogo, a emettere il timido fiato di un disgelo. Nella storia cinese, si sa, gli orologi scandiscono i secoli, non i giorni e le ore. Ma questa volta è bastato un mese perché tra le due «coste dello stretto» tornasse a soffiare un robusto vento di guerra. Pechino sfoggia tutti gli articoli della sua consumata, millenaria diplomazia imperiale. Prima ha utilizzato le acque del Mar Cinese, proprio davanti alla piccola isola ribelle, come poligono per aggiustare la mira dei suoi nuovi missili. Modo energico per ricordare a 20 milioni di capitalisti che essere ricchi non basta, e alla fine quello che conta non sono le cifre scintillanti del prodotto interno lordo, ma la cruda matematica degli arsenali. Ieri è passata la seconda fase, quella degli ultimatum secondo il concetto di strategia ampliata, in cui si arriva alla vittoria senza combattere. La guerra sarà inevitabile se il governo di Taipei compirà qualsiasi atto che sanzioni l'indipendenza dell'isola dalla madrepatria e se cercherà di dotarsi di armi nucleari (ipotesi che il presidente Lee, nel clima surriscaldato degli ultimi giorni, non aveva escluso). Con sottile perfidia mandarina, il quotidiano dell'esercito, a cui è toccato significativamente il compito di scandire il messaggio, ha spiegato che l'invasione sarebbe una sorta di pietosa chirurgica necessità, per «aiutare i fratelli di Taiwan caduti in mano di dirigenti pronti a svendere il Paese». Per i signori della Città Proibita, infatti, Taipei è solo una provincia «momentaneamente» separata dalla madrepatria, uno scialbo capitolo che prima o poi verrà chiuso. L'ultimo scontro militare diretto, infatti, risale al 1949, quando le truppe di Ciang Kai Chek, in fuga davanti ai contadini scalzi di Mao, si rifugiarono sull'isola, occupando anche gli isolotti di Quemoj e Ma- tsu, a soli 3 chilometri dal continente. Le truppe cinesi tentarono lo sbarco ma furono respinte. La guerra continuò con ciclici bombardamenti (l'ultimo nel 1960); ma i due tetri dirupi trasformati in bunker hanno resistito. Sono episodi che hanno cementato l'ideologia di Taiwan, «lavando» in parte l'onta della disfatta e fornendo la conferma che era necessaria una costante mobilitazione bellica con annesso, inevitabile regime autoritario. Tanto che le norme che reggevano l'isola si chiamavano con sottile arguzia: «Disposizioni temporanee durante il periodo di ribellione comunista». Sennonché la temporanea ribellione non è finita e Taiwan nel frattempo ha trovato nel successo economico, intessuto con i nodi del capitalismo confuciano, nuovi motivi d'identità. Il progetto di Taipei era scoperto. Gli sconfitti del 1949 volevano prendersi la rivincita grazie all'economia, riconquistare il continente immiserito da mezzo seco- lo di agro-dispotismo comunista a colpi di business. Il piano sembrava a buon punto: ad esempio Shanghai, antica roccaforte giacobina, è una colonia taiwanese, dove decine di migliaia di ex guardie rosse assetate di consumismo lavorano per i signori d'oltreoceano. Ma nel tenero ingranaggio della rivincita si è infilato un robusto sassolino. Pechino è stata al gioco fino a quando il regime taiwanese si è modellato sulle coordinate autoritarie che hanno garantito il successo di tutti i piccoli draghi dell'Asia. In fondo il nazionalcomunismo di Deng è solo la versione primitiva del millenario immobile ordine confuciano. Lo scandalo è scoppiato il giorno in cui T3ipei ha addomesticato la sua natura dispotica. Oggi nell'isola non ci sono prigionieri politici, i partiti si scontrano e si contano, la stampa è libera e impertinente. Anche il presidente sta per essere eletto a suffragio universale. Pechino può accettare di essere contagiata dal virus del capitalismo, non da quello del gioco democratico. A questa provocazione Taipei ha aggiunto quella indipendentista. Il vecchio slogan della riunificazione è mia finzione arrugginita, molti nell'isola credono sia ormai giunto il tempo di affermare la propria identità, cementata da cinquant'anni di separazione, e parlano d'indipendenza. E' quanto chiede il principale partito di opposizione e anche il presidente, che come Deng ha la passione di in¬ frangere i tabù, si è avviato sui'a china senza ritorno della richiesta di un seggio alle Nazioni Unite Nelle costruzioni autoritarie 11 scisma è il crimine per eccellenza e quindi Deng non può tollerali Anche perché nel suo assoluto rela tivismo ideologico c'è un solo punto fermo: la necessità di avere a! proprio fianco sempre l'esercite che non accetterebbe la separazio ne di Taiwan dalla madrepatria. Domenico Quirico Deng non può permettere che l'esempio democratico dilaghi nel continente Pechino fa sapere: pronti a invadere Taiwan Lee Teng-Hui, presidente di Taiwan e un'esercitazione dei militari di Pechino

Persone citate: Ciang, Domenico Quirico Deng, Mao, Teng