«Adesso restituitegli l'onare»

«Adesso restituitegli Tonare» «Adesso restituitegli Tonare» La moglie: per festeggiare gli cucino i tortellini NELLA CASA DELLA RIVINCITA PALERMO DAL NOSTRO INVIATO La voce metallica della «telefonata urbana urgente» interrompe la conversazione che Adriana Del Vecchio in Contrada, preside a riposo, intrattiene già da qualche minuto La signora non sa ancora che il Tribunale ha deciso di concedere la libertà al marito, sotto processo per l'infamante accusa di collusione con la mafia. La mattinata l'ha trascorsa ad aggirarsi per casa, senza sapere neppure cosa fare per accorciare i tempi di un'attesa che dura ormai da due anni e sette mesi, da quel 24 dicembre 1992, vigilia di Natale, quando alcuni «detective» della Dia bussarono alla porta per «prendere Bruno». La professoressa Adriana ora aspetta solo che quella porta si riapra restiduendole il marito. Posa il telefono, resta seduta vicino all'apparecchio un po' in ansia. Chissà che notizie sono in arrivo. Uno sguardo agli oggetti della casa, gli stessi di allora: le foto di Bruno Contrada in divisa da bersagliere, i ninnoli d'argento, i libri, i quadri (una delle passioni del funzionario), l'album fotografico degli anni trascorsi alla squadra mobile di Palermo, le facce di Boris Giuliano, Enzo Speranza, Vittorio Vasquez, Tonino De Luca, Ignazio D'Antone, i sottufficiali, gli agenti. Tutti. «Tutta la vita di Bruno, tutto ciò per cui ha vissuto ed ha continuato a lottare anche da detenuto». La signora Adriana sta per riprendere il filo dei ricordi, la interrompe il trillo del telefono. «E' Guido», il figlio avvocato che segue dall'esterno il collegio di difesa, il lavoro di Gioacchino Sbacchi e Piero Milio. «Guido, dimmi, dimmi...». Il figlio parla dal palazzo di giustizia e le comunica «la bella notizia». Poi aggiunge: «Senti mamma, adesso ti passo un giornalista. Devi assolutamente parlargli». «Ma veramente...», la signora non fa in tempo a replicare quando le arriva la voce di un uomo che dichiara di essere «un giornalista di Repubblica». «Si, ma con chi parlo. Posso sapere il suo nome?». Dall'altro capo, in tono canzonatorio: «Ma che non mi riconosci? Vedi, sono bastati trentuno mesi per scordati...». «E' Bruno, sei tu? Certo che sei tu... Che bello, ti aspetto a casa». Che notte, quella di domenica. Non ha dormito, Adriana Contrada: «Ho pregato, ho pregato tanto. La fede non mi ha mai abbandonato». Poi i lavori di casa, «anche per trovare distrazioni in attesa di sapere la decisione del Tribunale». «Qua è tutto come prima. Non è cambiato nulla, siamo allo stesso punto in cui abbiamo interrotto. Come nel film "Intermezzo", anche se li la vita veniva interrotta per altri motivi». E adesso? «Deve riposarsi, deve riprendere le forze per affrontare la battaglia finale, quella che deve restituirgli l'onore. Bruno non ha difeso la sua vita, ma il suo onore. Lui ci crede a certe cose... Non ha mai finito di essere soldato, sa come chiama la sua lunga carcerazione? La chiama prigionia, è più forte di lui, è rimasto bersagliere. A proposito, mi hanno detto che proprio ieri gli alpini della "Operazione Vespri Siciliani", i soldatini che presi¬ diano la città, sono stati sostituiti dai bersaglieri. Sono stati proprio di buon auspicio». C'è qualcosa di particolare che farete? «Mangeremo i tortellini in brodo. E' il piatto dell'unità familiare, delle occasioni particolari. Quel Natale erano in programma i tortellini in brodo... Non importa se fa caldo, stasera faccio il brodo per la famiglia riunita. E' arrivato anche "Totonno"». Già, «Totonno» il piccolo della casa. Antonio resterà sempre il bambino, anche se fa già il poliziotto, non a Palermo. La signora respira a pieni polmoni, poi guarda una lampada da tavolo poggiata su un ripiano sotto il tele- visore: «E' un regalo di Ninni Cassare». Inutile cercare reazioni al fatto che la vedova Cassarà è stata tra i testimoni dell'accusa: «Pace, c'ò bisogno di pace e di nuova serenità». Ma l'euforia della libertà ritrovata non offusca la ragione della signora Contrada. E neppure quella del marito. Proprio loro due, anche se contenti, sono stati gli unici, nell'orgia dell'eloquio generale, a non dimenticare giustamente che il provvedimento del Tribunale non e un'assoluzione. La partita è ancora aperta e l'aspetto rassicurante è sempre quella «equidistanza» della Corte, più volte riconosciuta dallo stesso imputato. Anche ieri, uscendo dal carcere militare «San Giacomo» (che forse richiuderà per mancanza di detenuti, visto che Contrada era l'unico), l'ex capo della squadra mobile ha ripetuto: «Ho la massima fiducia, una incondizionata fiducia nei confronti dei giudici che mi stanno giudicando, che mi giudicheranno». Un giudizio condiviso dagli avvocati Sbacchi e Milio, consapevoli anche loro della strada ancora da fare verso la sentenza. Sta meglio, adesso, la signora Adriana, inguaribile ottimista («me lo ha detto più volte don Giacomo Ribaudo, il parroco della Magione con cui ho lavorato facendo scuola ai bambini, il confessore che mi ha sostenuto nei momenti più difficili»). «La scorsa settimana - racconta - ho avuto seri problemi di salute. Ma mi sono fatta forza perché non potevamo ammalarci in due». Sta meglio, e sta meglio anche lui, «il dottore Contrada». Ha «affrontato» i giornalisti davanti al cancello del carcere. «Del processo non parlo», premette giu¬ stamente. Non una parola fuori posto, né una frase eccessiva. «Non ho mai pronunciato la parola "congiura"», risponde a chi porge il destro per una polemica coi pubblici ministeri. Contrada come Kafka? «Non è l'unico esempio letterario, quello, di situazioni assurde. Forse è il più efficace perché il protagonista non si rendeva conto di ciò che gli accadeva intorno». Neppure sui pentiti, ha straparlato: «Non credo di avere legittimazione ad esprimere pareri su fenomeni come il pentitismo, data la mia situazione, essendo io un uomo accusato dai pentiti». Cosa gli ha fatto più male in carcere? «L'ossessione. Cioè essere costretto ogni giorno a pensare al mio processo». Cosa desidera fare subito? «Voglio andare al mare». Ma prima deve andare a casa, nell'appartamento dove ha abitato per più di vent'anni a «Villa Tunisi», in un complesso costruito per i dipendenti della polizia. Sale sulla vecchia «Uno» guidata dal figlio Guido, non senza aver abbracciato Michele Di Giovanni, il vecchio brigadiere in pensione che è venuto a salutarlo. «E' un uomo buono», mi dice il sottufficiale. «Quando era il mio capo restava a lavorare fino a notte fonda. Mangiava un panino e leggeva le carte. Non può essere mafioso, uno così». Francesco La Licata Lo 007: in carcere ero ossessionato dal dover pensare al processo «Mi ha telefonato e non l'ho neppure riconosciuto» «Ora abbiamo solo bisogno di avere un po' di pace» P>* fu» 4 1: Te A La moglie e il figlio di Contrada. A destra, una lettera dal carcere

Luoghi citati: Contrada, Palermo, Tunisi