L'ultimo càtaro di Sicilia di Giorgio Calcagno

Dagli antichi eretici alle memorie famigliari Il giudice Santiapichi dai processi Br e Ali Agca alla narrativa L'ultimo càtaro di Sicilia Dagli antichi eretici alle memorie famigliari «si ROMA 1 ELL'UFFICIO della prima «corte d'assise, Severino 1 Santiapichi sfoglia le carte a ' I di un grande processo. Dopo le Br, dopo Ali Agca, il presidente delle cause difficili ha esaminato il caso della banda della Magliana, 94 imputati, vent'anni di crimini. Ma, prima di riapparire nei titoli della cronaca, il suo nome arriva in libreria, con un'opera letteraria, Romanzo di un paese, appena pubblicato da Rizzoli. Santiapichi è nato a Scicli, nell'estremo Sud deDa Sicilia, e alla sua terra è rimasto legato per via di sangue, anche se la professione lo ha portato lontano. Ha insegnato all'estero, dal 1960 al '67 è stato vicepresidente della Corte suprema in Somalia, vive da molti anni nei pressi di Roma. Del suo paese restituisce oggi, con l'affetto del ricordo, costumi antichi e in buona parte scomparsi, personaggi di un mondo che sembrava inattaccabile dalla storia e ha dovuto subire l'urto più violento con la realtà. Il giudice che sa muoversi con disinvoltura fra il latino del diritto usa qui un italiano petroso, smaltante, ravvivato a ogni passo dall'irruzione del siciliano, che riscatta il ripiegamento sul passato con l'ironia. Quanto ha contato, nella vita del giudice e dello scrittore, il rapporto con la sua terra? «Io ho le radici in una pianta di carrubo. Il nome di Scicli non viene da Sicilia, come alcuni credono, ma dalla Cercis siliqua, che è il nome scientifico del carrubo. La Sicilia per me è la memoria». Anche se le storie del romanzo evocano un passato familiare, ancora ricostruibile da chi lo ha vissuto, le radici di Santiapichi risalgono assai più indietro, in una civiltà antichissima. «Noi discendiamo dai càtari - dice con fierezza il giudice -. Mia madre e mia sorella sono state le ultime càtare di Sicilia. I miei antenati erano argentieri, cesellatori, facevano madonne. Nel 1848, per placare gli animi dopo i moti rivoluzionari, il comandante del presidio di Siracusa regalò al duomo un grande lampadario fatto da Vincenzo e Gaetano Càtera. Erano il mio nonno e il mio bisnonno». Dietro di loro c'era una storia millenaria. «Questi càtari di Sicilia sono una .filiazione dei bogòmili se non sono la stessa cosa - fuggiti dalla Bulgaria intorno al Mille. Anche Bulgari di Roma viene di lì. Nel 1200 ai Càtera venivano commissionate opere dalla corte di Federico II. Erano manichei, di derivazione cristiana; solo che rovesciavano il rapporto fra Dio e il demonio. Poi si sono riawicinati alla Chiesa». Ma un po' di demonio, in quegli uomini, qualcuno lo vedeva davvero, magari per ragioni non religiose. «Un Gaetano Càtera, nel Seicento, faceva il corsaro, per conto di privati. Fu preso dopo un rapimento, nel 1648, lo squartarono in piazza a Palermo. Lo zio di mio nonno aveva partecipato a una congiura antiborbonica a Noto, lo si legge nel romanzo di un autore siciliano, "La società dei fratelli"; tutta storia vera. Fu condannato a morte; il giudice borbonico cercava di risparmiargli la vita. Ma poi arrivarono a Noto i garibaldini, e poche ore dopo il Càtera si trovò fucilato da Bixio». Il discendente di questi personaggi ha passato tutta la vita con la giustizia, dalla parte di chi tiene la bilancia. Senza dimenticare l'antica passione per la letteratura. «Ero ragazzo e mi buttavano fuori dalla scuola perché, sotto il banco, leggevo. Quasi ogni giorno finivo fuori. Ho ritrovato fl mio preside, anni fa, parlava bene di me come alunno: e non era vero. Di matematica non capivo niente». In compenso aveva letto tanti libri. Quali autori lo hanno influenzato di più? «Vittorini, Quasimodo; gli scrittori giudici, Ugo Betti, Troisi: nel suo Diario di un giudice c'è tutto. E Kafka, Gide. Con Pasquale Festa Campanile avevamo cominciato un libro assieme sulle esperienze di Gide in Corte d'Assise. Stimo molto Bufalino, il Consolo del Sorriso dell'ignoto marinaio». E non Sciascia? Leggendo la sua prosa si sentono molti giri di frase che ricordano l'autore dell'iiAffaire Moro». «Sciascia è stato correttissimo con me. Non ha mai discusso con me di Moro. Voleva venire a vedere gli atti, e non mi ha mai fatto domande mentre era in corso il processo». Ma il giudice che doveva processare i brigatisti non poteva essere interessato solo all'aspetto letterario, nella inquisizione di Sciascia. «C'era in lui una intuizione profonda. Aveva capito che Moro era prigioniero qui a Roma. E aveva capito che la ragione del sequestro era legata al compromesso storico. Come risulta anche dalla sentenza». C'è un rapporto fra le due conclusioni? «A posteriori. Un giudice non deve lasciarsi suggestionare da una intuizione letteraria. Posso dire che sono poi risultati punti di concordanza. Con una differenza di base: le intuizioni di Sciascia venivano da letture sul processo in corso, noi ci fondavamo sugli atti processuali». Lo studente che si faceva buttare fuori dall'aula perché leggeva sottobanco ha perseverato in quel vizio, anche oggi che deve amrninistrare l'unicuique suum. «Se uno vuol capire il fondo delle cose, non può prescindere dalla letteratura, dalla grande letteratura. Noi siamo a contatto con problematiche che toccano il profondo dell'essere umano. Sappiamo che cosa significa per un uomo dover vivere vent'anni in un carcere. Certe cose di Tolstoj e di Dostoevskij non si possono dimenticare». E quando è lo stesso giudice che diventa scrittore? «Il mestiere di giudice crea un distacco, nella vita privata. Possiamo avere molte curiosità letterarie o scientifiche. Ma non dobbiamo usare il nostro mestiere in privato». Giorgio Calcagno Severino Santiapichi