Re di follie, a Katmandu

Re di follie, a Katmandu gli ultimi avventurosi. Fuga dalla Rivoluzione per fondare un Club da re Re di follie, a Katmandu EL 1955 Life dedicava un grande servizio al Nepal, che «per un secolo ha stizzosamente chiuso le sue frontiere agli stranieri». «Ma», continuava il pezzo, che naturalmente era accompagnato da fotografie magnifiche, «di recente Boris Lissanevitch, un ex russo naturalizzato inglese, è riuscito ad affittare un palazzo a Katmandu, e a convertirlo nel "Royal Hotel" facendo arrivare tutto per via aerea, dalle posate ai cuochi ai gabinetti con lo sciacquone». Boris era un uomo pieno di energia e di grazia mondana, con una pettinatura alla Proust e una camicia a sgargianti righe verticali. Dimostrava 45 anni ma ne aveva almeno dieci di più, ed era circondato da un alone di leggenda. «Devo tutto alla rivoluzione russa», diceva, ma come al solito minimizzava. In tutto il Nepal lo conoscevano come Boris e basta, «Boris of Katmandu», l'ospite infaticabile che la sera sedeva a chiacchierare con gli amici nel bar del Royal Hotel, e dietro le loro insistenze raccontava un pezzo - sempre troppo piccolo, sempre con l'educato vezzo di minimizzare della sua avventurosa vita: gli anni del benessere a Odessa, la scuderia dei cavalli da corsa di suo padre, i giorni di Parigi accanto a Diaghilev e Cocteau, i teatri di Shanghai, le fumerie d'oppio a Kratie, le tigri dell'Assam, i grandi ricevimenti al Club 300 a Calcutta, i giovani piloti che andavano a morire per la Cina, la spedizione antropologica a Hollywood con tre maharaja, la civetteria della regina Elisabetta e la malinconia del re del Nepal, l'arrivo dei cinesi in Tibet e la fuga dei Vecchi Credenti dalla Siberia, e ancora mille e mille storie di cui era stato il privilegiato testimone. Boris Lissanevitch era stato uno dei primi stranieri a entrare nella valle di Katmandu nel 1951, a bordo del jet del suo amico re del Nepal, e si era lasciato conquistare dalla grazia di un Paese di grande cultura rimasto isolato per secoli, e pertanto intatto, splendido, con un'architettura elegante, ogni finestra, ogni maniglia, ogni singolo dettaglio curato ad arte, gli occhi di Buddha dipinti sui templi, i ponticelli tenuti insieme dalla corda sopra tumultuosi torrenti ai piedi dei ghiacciai, le risaie e le foreste di rododendri, le donne fasciate di rosa, rosso e nero. Era comprensibile: Boris si lasciava alle spalle l'inferno della spartizione dell'India, diecimila morti solo a Calcutta e la stanchezza della guerra. E pensava che Katmandu, radiosa e senza luce elettrica, senza automobili, senza ferrovie, fosse quello che ci voleva per lui Perciò non perse tempo. Riuscì ad ottenere un'ala dell'immenso palazzo in puro stile Katmandu baroque del generale Bahadur Rana, e si buttò nella colossale impresa di trasformarlo in un Ritz: fece arrivare dall'estero, a bordo di aerei, muli ed elefanti, candelieri e specchi veneziani, vasche da bagno sconosciute e servizi all'ultima moda. Di cibo locale neanche a parlarne: la dieta nepalese era di riso e l'unica carne disponibile era di bufalo. Perciò aprì il primo forno per il pane di Katmandu e si mise a coltivare esotiche meraviglie co me carote, spinaci, lattuga e fragole. Passò mesi a spiegare ai doganieri sbigottiti gli «ingredienti» del caviale e del prosciutto, istruì un esercito di domestici su tutto: da come tenere in mano un cucchiaio a come rifare un letto a come lucidare le scarpe Fin qui, fu un gioco da ragazzi. Il vero problema si presentò con le mansioni da affidare alle varie caste e gruppi religiosi: perché naturalmente in Nepal chi spazza per terra non rifà i letti, chi rifà i letti non spolvera, chi serve a tavola non cucina, e chi cucina non è disponibile a nessun lavoro inferiore. Chiunque si sarebbe dato per vinto ma non Boris: che nell'estate del 1955 aprì il Royal Hotel alla sua prima coppia di turisti, con tanto di ricevimento alla presenza del sovrano Tribhuvan, incarnazione di Vishnu, Re dei Re, cinque volte Divino, Guerriero Valoroso e Divino Imperatore. La notizia dei coeurs d'artichauts à la Boris e delle soles à la Boris che furono serviti si sparse giustamente sino a New York e Life mandò subito un inviato. Fu allora, probabilmente, che l'Occidente cominciò a interrogarsi su questo misterioso personaggio capace di convincere l'eroe dell'Everest Edmund Hillary ad allevare api nel giardino del Royal Hotel, mentre riceveva, accanto ai Krupp e ai soliti miliardari randagi, la prima coppia di astronauti russi, un padre gesuita, alcuni maharaja, e un buon numero di antropologi, etnologi e scalatori senza soldi, a prezzi di assoluto favore, perché, a quanto pare, la generosità di Boris era illimitata quanto discreta. «Con la fame, il tifo e la rivoluzione, ho imparato molto presto quanto sia relativo il valore del denaro» spiegava allo scrittore Michel Peissel, che all'inizio degli Anni Sessanta gli dedicò Tigerfor breakfast, un libro che ancora oggi si vende a Katmandu. E venne fuori che Boris Lissanevitch era stato uno dei primi ballerini della compagnia di Diaghilev, il genio che negli Anni Venti aveva trasformato la danza in un grande laboratorio artistico cui collaboravano Cocteau e Picasso, Braque e Matisse, Prokofiev e Stravinskij. Ma come Boris fosse arrivato a ballare per Diaghilev con stelle del livello di Anna Pavolova e Lady Diana Cooper, è la vera stranezza. Accadde, questo sì, per via della Rivoluzione. La famiglia Lissanevitch veniva dal porto di Odessa sul Mar Nero, ucraini agiati, avevano una scuderia di cavalli da corsa. I suoi tre fratelli, tutti educati alla scuola dei cadetti, erano già nella Marina Imperiale quando scoppiarono i moti bolscevichi. Il padre fu deportato, un fratello seguì il destino della sua nave in fondo al mare, un altro riuscì a fuggire in Francia via Dardanelli, il terzo fu condannato a morte e poi salvato dai suoi stessi marinai che chiesero per lui la grazia (anche se poi nel '35 fu «liquidato»). Quanto a Boris era un cadetto di 15 anni quando Odessa capitolò, e non aveva nessuna speranza di essere risparmiato. Fu allora che la zia Madame Gamsakurdia, che dirigeva la scuola di ballo dell'Opera di Odessa, lo prese con sé e gli diede qualche lezione per farlo passare per ballerino. E Boris, a sorpresa, si scoprì pieno di talento. Per anni, allora, ballò davanti a platee affamate di contadini che pagavano il biglietto con uova e patate, prima di riuscire a fuggire a Parigi, dove si trovò un posto di operaio alla Renault. Poi, alla notizia che il grande Diagliilev era in città, riuscì a ottenere un'audizione: «Ero così eccitato... che di fronte a Diaghilev volai». Poco dopo eccolo pas¬ seggiare elegante sul lungomare di Montecarlo: immune e felice, era passato dalla Russia stremata e depressa alla festosa Costa Azzurra degli Anni Venti, e dopo poche settimane, tra uno spettacolo e l'altro, si dava già da fare per rifornire di caviale i grandi alberghi della Riviera. Fu allora, evidentemente, che affinò il palato alle raffinatezze della cucina francese, perché quando nel 1936 aprì il leggendario Club 300 a Calcutta, fece in modo di avere un cuoco cordon bleu direttamente dal Negresco. Come al solito, Boris aveva avuto un'idea avventurosa e geniale. Dopo aver ballato per qualche anno a Ceylon, Giava, Bali, Shanghai e Saigon, con la sua giovane moglie Kira, si era accorto che la ruggente vita notturna di Calcutta non offriva nulla dopo le due del mattino, e soprattutto non aveva circoli misti. Perciò trovò i fondi e si mise alla ricerca di una degna sede per il primo club per inglesi e per indiani. E si innamorò. Si innamorò di un mirabolante palazzo di marmo, circondato da un parco in stile vittoriano, che aveva una storia degna di un romanzo. Nel 1870, infatti, era arrivato a Calcutta un armeno in cerca di fortuna che si faceva chiamare Phil lips, ed era presto diventato ricchissimo con l'edilizia e col carbone. Phillips era un vero eccentrico: prima che lo facessero smettere perché creava tumulti, girava per la città con una mac china a vapore a forma di gigan tesco cigno, che di tanto in tanto si fermava, sbuffava vapori dalle narici, tremava tutta, fischiava, e deponeva uova d'oro (vero) in mezzo alla strada (oggi è un cimelio in un museo di Bombay) Phillips ebbe un grande amore nella sua vita, una giovane donna per la quale fece costruire una «follia» architettonica di marmo, ma lei fuggì con un soldato alla vigilia delle nozze, e lui, dopo averle dato la caccia per anni, si ritirò in quel palazzo, e mise nei suoi dodici appartamenti dodici ragazze di nazionalità diverse, che una volta alla settimana si faceva portare, una dopo l'altra, su dei vassoi d'argento. Morì pazzo, questo va da sé, e Boris affittò il palazzo per il suo club, riservandosi un appartamento per sé e la sua nuova moglie da nese, Inger. Il 18 dicembre 1936, alle 23 e 30 in punto, davanti al «Phillips' Folly» si formò allora una lunga coda di limousine da cui discese la più festaiola e sfavillante so cietà di Calcutta, e al rombo di una batteria accompagnata da due pianoforti (un accostamento decisamente insolito, inventato da Boris), nacque, sotto i migliori auspici, il Club 300. Fu dopo qualche bicchiere di champagne di troppo al club che una notte i migliori amici di Bo¬ ris, cioè il generale Mahabir, il giovane maharaja di Cooch Behar e il bellissimo Maharaj Prithy Singh lo nominarono tesoriere della «prima spedizione scientifica per lo studio delle stelle (di Hollywood)» e con 70 mila dollari in tasca partirono alla conquista delle più belle donne di Beverly Hills: tre mesi di follie e una festa d'addio per 450 invitati. Intanto, a Calcutta, i generali inglesi e americani pattugliavano il bar del club, dove si incontravano anche i giovani piloti coraggiosi che volavano sull'Himalaya per portare aiuto alla Cina attaccata dal Giappone. Furono in duemila a non tornare più indietro, e c'è chi dice che per anni, a New York, alcune loro vedove ricevettero un assegno mensile da un misterioso Mr. Lissanevitch. Se a questo punto si aggiunge che la sua fama di cacciatore di tigri era pari soltanto a quella del maharaja di Cooch Behar, si capisce che quando Boris arrivò a Katmandu, negli Anni Cinquanta, fu un avvenimento di portata nazionale, e il nuovo re, Mahendra figlio di Tribhuvan, gli ordinò senza esitazione il banchetto per l'incoronazione. Fare arrivare dall'India tre DC 3 con seimila polli vivi, mille anatre, duemila oche e cinquecento tacchini, era nulla per un genio dell'organizzazione come Boris. Le vere difficoltà erano gli americani che non potevano sedere coi cinesi, i vegetariani che non mangiavano carne mentre altri non mangiavano uova, gli indù che non toccavano il manzo e i musulmani il maiale: il solito mal di testa delle religioni e delle caste. Ma Boris scivolava tra gli ospiti leggero, con la sua eterna camicia a righe sgargianti e un mondano buonumore, dicendo, a chi lo interrogava, «è tutto un gioco». A Katmandu, ormai, era diventato l'uomo che aveva una risposta per ogni problema. I principi gli affidavano i loro ricevimenti, gli alpinisti che tentavano la scalata dell'Everest si appoggiavano a lui, gli studiosi cercavano i suoi consigli. Due linee aeree nacquero per sua iniziativa, e la regina Elisabetta, che nel 1961 andò in Nepal per la più spettacolare caccia alla tigre mai realizzata, durante la quale sei elefanti-bar di Boris servivano drinks ghiacciati, infranse persino il protocollo per lui, e congedandosi gli tese emoziona ta la mano da baciare. Oggi non esistono più né Boris Lissanevitch né il Royal Hotel Ma Inger, sua moglie, è rimasta a Katmandu. E forse, da qualche parte, conserva ancora la pistola per lo yeti che un texano gli regalò, come ricordo della loro spe dizione alla ricerca dell'aborrii nevole uomo delle nevi. L'avevano battezzata «Alka Seltzer gun» e aveva due caricatori: uno pieno di sonnifero per addormentare il mostro, e l'altro pieno di una sostanza eccitante per risvegliarlo. Ma Boris si era dimenticato quale fosse quale. E c'è solo da sperare che non la trovi inai nessu Livia Manera Arrivò con iljet di un amico, il sovrano del Nepal. Alla sua «corte» miliardari, maharaja e la prima coppia di astronauti russi Da ex ballerino di Diaghilev a cacciatore di tigri con la regina Elisabetta (e sei elefanti-bar) RACCONTI D'ESTATE Una via di Katmandu. Sopra, Lady Diana Cooper. Sorto. Boris Lissanevitch. A centro pagina, la regina Elisabetta e elefanti indiani