A Spalato, soffocata dalla guerra di Igor Man

A Spalato, soffocata dalla guerra A Spalato, soffocata dalla guerra Trentamila profughi e l'angoscia nell'aria SULLA RIVA MALATA DELL'ADRIATICO W. "SPAùlTO M ADRIA' L TICO, ha BH scritto Fernand BraudéJ, è un Mediterraneo ridotto, contiene tutte le contraddizioni della Storia, è un mare amaro. E Pedrag Matvejevic, lo scrittore croato in odore di Nobel, dice che sulla costa occidentale dell'Adriatico il sole tramonta dietro alle montagne, su quella orientale affonda in mare: «Neppure i tramonti sono eguali su tutte le sponde dell'Adriatico». A Split, la dalmata Spalato, il tramonto è lungo e lento. In tutte le città che la guerra trasforma in retrovia la controra opprime, stimolando angosce fisiche e morali. Spalato non fa eccezione. Chi c'è stato prima della guerra la ricorda viva, allegra, attiva. Era (è?) la seconda città industriale della Croazia: quattro anni infami hanno isterilito l'economia, fugando innanzitutto il turismo. Buona parte degli alberghi ospitano adesso trentamila profughi. Una presenza discreta, poiché si fa in modo che non vadano troppo in giro, epperò accasciante. Se non fosse per l'Hajduk (la famosa squadra di calcio) la depressione ci ucciderebbe, dice un ragazzo alto e bello. Sediamo per un veloce caffè al tavolo di uno dei civilissimi bar che punteggiano la Riva, come qui chiamano lo splendido lungomare. Il ragazzo è con due compagni, allietano il gruppo due figliole dai capelli biondi come la paglia. Li descrive bene, i ragazzi di qui, Carlo Sgorlon nella Foiba Grande: «(...) pezzi di marcantoni alti e fieri, ragazze di gambalunga e di petto sodo ed elastico». A Spalato resiste la cultura del caffè come luogo di aggregazione anche se un (sedicente) espresso costa 1500 lire quando lo stipendio medio non supera il mezzo milione italiano. Questi che stanno con noi hanno (sinora) scapolato la naja perché studenti universitari in regola con gli esami. Ma prima o poi beccano anche noialtri, dice M. che sogna di diventare giornalista. Ma cosa fate durante il giorno, domando, e una gambelunghe ride divertita: niente, dice, non facciamo niente. Invece si scopre che «danno una mano», anche se la sera si stordiscono di musica rock ballando sino allo sfinimento al Caccadu, all'aurora, allo Shakespeare. Anche qui circola la droga, e non poca: Slobodna Dalmacija, il quotidiano locale (un giornale fatto davvero bene, centomila copie di tiratura) ci apprende che da gennaio a luglio i morti per overdose sono stati quindici. Ma perlopiù i ragazzi di questa piccola Chi- cago ch'è Spalato «danno una mano». E' curioso accorgersi che a dispetto di anni e anni di «livellamento sociale», nonostante il socialismo titino, questa città antica conservi, ancorché in filigrana, la remota divisione in nobili, cittadini, popolari, distrettuali. I nobili sono ufficialmente scomparsi da gran tempo: erano proprietari terrieri, oggi dominano il girone più alto e rappresentativo dei colletti bianchi, coltivano le belle arti, fanno televisione. I cittadini sono navigatori ma soprattutto mercanti; i popolari praticano l'artigianato, i lavori spiccioli; i distrettuali vivono fuori delle mura romane e non, sono contadini di terre davvero ubertose. Che vuol dire «dare una mano»? Ce lo spiega Margherita Paolini, anzi la dottoressa Paolini, responsabile della «base operativa» (a Spalato) de.. ì nostra cooperazione diretta dal ministro plenipotenziario Aloisi. La Cooperazione Nuova, rigenerata, quella che negli ultimi due anni ha distribuito, solo in Bosnia, diecimila tonnellate di aiuti. Un ponte aereo PisaSpalato (otto voli settimanali) permetterà durante i prossimi tre mesi di far arrivare, velocemente, con i C-130 e i G-222 della nostra (benemerita) 46" aerobrigata, gran copia di generi di conforto a Spalato. Da qui convogli di grossi camion Iveco li smisteranno secondo la formula «continuità-ecumeni¬ smo». Chiunque abbia bisogno d'aiuto: serbi o croati, musulmani e non musulmani, lo riceverà. Grazie soprattutto ai ragazzi che «danno una mano», personaggi quali Josko e Sanja. Venga, mi dice Margherita Paolini, voglio presentarla al più potente autista di camion, Sanja, appunto, Sanja Brnadi'c. E' costei una gracile ragazza croata di 27 anni, laureata in ingegneria. Occhi chiari, capelli color pannocchia di granturco, una mano d'acciaio. Suo padre, sorride Margherita, non voleva che prendesse la patente. E lei, ora, valica il monte Igman, portando camion pesanti a Sarajevo. E Josko? Josko sta dormendo ma la storia è questa: lui è capo di un convoglio - racconta la Paolini -, di 50 camion, tutto di beni italiani. In testa e in coda gli Iveco della Cooperazione, nel mezzo scassati autocarri con targhe bosniache e croate. Andavamo da Mostar a Sarajevo per una pista (alternativa) di montagna. Sul passo ci fermano i «miliziani», banditi che nessuno osa sloggiare, armati di Khalashnikov, di bazooka. Aiuti o non aiuti vogliono «almeno metà del carico». Josko tergiversa, la butta sul ridere ma quelli non mollano, la situazione sta per precipitare allorquando Margherita tira fuori l'arma segreta: una bottiglia di Chianti. Andate, dicono i banditi. Perché la dottoressa Paolini, pubblicista, analista di politica estera, esperta del Sud del mondo, fa questo lavoro pericoloso? Perché credo che gli aiuti possano evitare la guerra generale o, se non altro, attenuare la disgrazia degli innocenti, risponde. Margherita e i suoi collaboratori sono molto contenti perché il ministro degli Esteri italiano, signora Agnelli, è venuta a Spalato - «un blitz intelligente» -, a verificare il ponte aereo e l'occasione è valsa, «se non altro», a far conoscere agli italiani, non solo a loro, che il nostro Paese «fa la sua parte»: con 110 miliardi di aiuti in soli tre anni, l'Italia è al primo posto in fatto di «assistenza umanitaria». Alla vigilia dell'estate del 1991, quando esplosero i primi combattimenti in Jugoslavia, raggiunsi per telefono, nella sua casa di Palmoticeva, a Belgrado, Milovan Gilas. Era una febbre passeggera ovvero una guerra? «E' la guerra - rispose -, una brutta guerra. Ne usciremo, un giorno, magari in forza del solito compromesso sempreché rimanga limitata alla Slovenia, alla Croazia. Se, però, coinvolgesse la Bosnia Erzegovina, la guerra diventerà pressoché insolubile. C'è il rischio che duri anni, forse decenni». Sono 4 anni che si combatte senza misericordia. La Jugoslavia, un paese povero ma dignitosamente unito, è divenuta un mattatoio; s'è trasformata in una miniera a cielo aperto di orrori, di traffici illeciti. Fra gli stupri e il cecchinaggio contro i bambini, scorre il liquame ignobile del malaffare: a ridosso dei campi sportivi divenuti cimiteri, si commerciano immense partite di droga, di armi; le banche lavano il denaro sporco, senza posa. Sicché, oggi, un Paese mezzo contadino, mezzo postmoderno, ci appare come una riuscita imitazione del moto perpetuo: dell'orrore e del disonore. Giorno dopo giorno, col perpetuarsi della guerra, si consolida una piccola Danimarca fatta di nuovi ricchi senza scrupoli, cresce una grande India fatta di poveri forse senza più speranza. A Belgrado un paio di scarpe buone costa 10 miliardi di dinari (circa 1 milione di lire al cambio diciamo ufficiale). Nella periferia sottoproletaria di Sarajevo, di Mostar, di Banja Luka, bambine di 13 anni si prostituiscono per un uovo. Sarajevo forse riusciremo a salvarla, consolando così la nostra dignità perduta. Ma Sarajevo non è la Jugoslavia. Meglio: la Jugoslavia sopravvissuta, in termini geopolitici, al secessionismo della Slovenia, del¬ la Croazia, è un groviglio magmatico di dieci, cento, mille Sarajevo. E allora, che fare? A codesto (storico) interrogativo non è più lecito rispondere con la famosa formula di Lenin: facciamo due passi indietro, oggi, per fare un passo avanti domani. La Russia del primo dopoguerra era smisuratamente miserabile ma in superficie, se così può dirsi; nel suo profondo era immensamente ricca, anche ideologicamente. La Jugoslavia odierna è assolutamente povera: economicamente, ideologicamente. E la vera ragione della guerra (in questo concordo con quanto ha scritto Marek Edelman) non è una presunta, ancestrale ostilità religiosa bensì la questione del potere. Anzi del potere comunista. (Sia Milosevic che Izetbegovic sono ex comunisti riciclatisi alla romena). Sia come sia nessuna soluzione incruenta sarebbe possibile senza «il concorso della Russia» poiché a dispetto delle apparenze gli Stati Uniti non sono una vera «potenza egemone». Soltanto un bipolarismo nuovo, costruttivo può impedire che nel cuore dell'Europa s'accenda un blasfemo incendio eterno, padre di infinite, interminabili sciagure collettive. Se l'Occidente crede di poter dettare regole di comportamento a Boris Eltsin, si sbaglia. La vecchia, «santa» Russia non è l'Europa che crede di nascondere le sue divisioni-rivalità croniche dietro Maastricht. Come semplici cittadini del mondo, faremmo bene a riflettere sul fatto che non tutti i serbi sono degli assassini, così come non tutti i musulmani sono degli innocenti, come non lo sono i croati eccetera. Davanti all'etica sgozzata dalla viltà, dal tradimento, di fronte a una ennesima «Monaco dello spirito», Spalato consuma febbrilmente le sue giornate, non più polmone di una nazione bensì tubo di scarico del malaffare e del rimpianto. Il rimpianto della Jugoslavia povera ma civile, una. Quella Jugoslavia non c'è più. Nessuno torna indietro. Tantomeno la Storia. Igor Man Gli italiani hanno il record di aiuti e di volontari Il turismo è crollato Sul lungomare solo ragazzi depressi Sopra, la protesta dei bosniaci a Buchenwald A destra e a fianco profughi di Zepa con i francesi