Nel brivido di Parigi di Barbara Spinelli

Nel brivido di Parigi DAL QUARTIERE LATINO Davanti al metrò di Saint-Michel un uomo grida: sono i maghrebini, cacciamoli tutti Nel brivido di Parigi Rabbia e paura, una città smarrita PARIGI ON si sa ancora conio mai, ieri mattina prima dolio 9, un passeggero abbia scelto di suicidarsi nel luogo più maledetto di Parigi: nella stazione della metropolitana di Saint-Michel, dove l'altro ieri è scoppiata la bomba terrorista che ha seminato morto e panico nel cuore della città. Il passeggero si è gettato sui binari, e tutte le disperazioni sono contemplabili: uno sconvolgimento privato oppure uno smarrimento che la bomba ha ingigantito. Una paura comunque, che ha deciso di esplodere proprio li, proprio nel giorno dopo l'attentato, proprio sotto gli occhi del Quartiere Latino. Quartiere Latino che ha rabbrividito, il pomeriggio dell'esplosione, e che rabbrividisce ancora al ricordo del sangue che ha visto, delle barelle con i morti che ha guardato passare, delle sirene che ha ascoltato. C'è paura a Parigi e nel Quartiere Latino la paura si addensa perché d'un sol colpo tutto sembra metamorfosato: l'estate accaldata, l'atmosfera di vacanza, il via vai di turisti che d'un tratto osservano la città con sguardo diverso, non più del tutto spensierato, più guardingo, diffidente. Nel più grande negozio di libri, da Gibert Jeune all'angolo di piazza Saint- Michel, una cassiera dico che i turisti hanno rallentato i passi oltre che l'affluenza. Altri commercianti si lamentano: «I turisti se ne andranno, forse già stanno scappando, perché sono loro ad affollare lo stazioni, le metropolitane, gli aeroporti, i cinema, i musei, e tutti i luoghi pubblici dove c'è ora pericolo di morte». In tutti questi luoghi si concentra anche la polizia, che controlla e ferma i passanti. Parigi si sente catapultata in una specie di guerra, da martedì sera, e la cosa non stupisce perché è sempre così quando il terrorismo si abbatte con grande violenza su una metropoli. «La grande città ha sempre questa caratteristica di amplificare le paure e di trasformarle in psicosi», mi dice un giornalista del quotlotano Liberation. Ma c'è qualcosa di più in questo sentirsi catapultati,-esposti. C'è come.un'estensionrgeogfàfica della paura, cernie se l'attenzione e lo sguardo di Parigi colpita s'allargassero oltre le frontiere, e andassero a puntarsi su possibili avversari che hanno scelto come bersaglio la Francia, a causa della sua politica estera oggi particolarmente attiva, solitaria, duellante. C'è la sensazione di esser protagonisti di una guerra più vasta, dichiatata al Paese tramite l'attentato a Saint-Michel: una guerra non più localizzata a Sarajevo o Algeri ma terribilmente, oscuramente vicina. Gli ammazzatoi sembravano allo porte di casa ed eccoli invece dentro la città, dentro il domicilio di ciascuno. Un capannello, accanto all'edicola di piazza Saint-Michel presso l'ingresso del metrò, commenta quel che è accaduto. Uno annuncia che proprio qualche minuto fa è stata sgomberata per un allarme la staziono del metrò Chàtelet Ics Halles, vicino al municipio oltre la Senna. Un altro aggiungo: «Purtroppo adesso se la prenderanno con gli stranieri, gli emigranti». E' un democratico che parla, ed è per questo che il suo interlocutore si arrabbia, replica che gli emigranti, soprattutto arabi, «se lo meriterebbero di essere cacciati». Lo stesso interlocutore, un parigino di mezza età, dico poi tutto quello che pensa: «La verità è che la Francia non è come gli altri Paesi europei. Vuole sempre occuparsi di quel che succede sulla terra, immischiarsi in tutte le guerre, esser presente nel Pacifico, in Bosnia, in Algeria, in Africa. Si occupa troppo di quel che accade agli altri, soprattutto ora con Chirac, e invece dovrebbe farla finita e occuparsi finalmente solo di so stessa, come fanno gli altri europei». E aggiunge: «La verità è che siamo una grande potenza, che forse solo l'Inghilterra ci somiglia, ed è naturale che ora subiamo il terrò», rismo. Tutt'e due, Francia e Inghilterra, sono state potenze coloniali, e sono oggi potenze nucleari». Un giovane si avvicina, è d'accordo, e il parigino di mezza età lo apostrofa così: «Lei non se la ricorda, l'Indocina». Strana reazione - questa dei parigini - che mescola l'orgoglio di sentirsi una grande nazione e il risentimento di chi non vuole pagarne i prezzi; la fierezza di avere un destino unico e l'intimidimento di fronte al manifestarsi brutale di tale destino. C'è anche molto fatalismo, nei parigini, come sempre. C'è una sorta di taciturna, scontrosa rassegnazione a una brutalità considerata inevitabile. Accanto alla stazione del metrò, sul lato sinistro di boulevard Saint-Michel, c'è un bar dove la gente si affolla al banco e parla dell'accaduto. Nel bar di fronte, al lato destro, eh fronte allo stesso ingresso di metrò, la padrona alza appena lo sguardo quando è interrogata e parla come morsicando, laconica: «Non ho sentito nulla, non ho visto nulla». Parigi si sente vicina a tutte le guerre, e in più sa di esser diversa; si sento nell'occhio del ciclone. Di tutti i cicloni. La donna che vende i giornali, nell'edicola, conclude: «E' sicuro che son stati gli islamici. E' la guerra d'Algeria che si sposta in Francia. Sono stati loro a colpirci già una volta, negli attentanti dell'86. Mentre i serbi non credo, i serbi fanno i terroristi in Bosnia, non fuori casa». Poi aggiunge tuttavia, contraddicendosi: «Gli attentatori dovrebbero prendersela con i politici più che con i cittadini innocenti. Perché sono i politici i veri bersagli: sono Chirac e Juppé per via della loro posizione in Bosnia o Algeria». Questo sottile rancore contro Chirac traspare in vari commenti. La padrona di una piccola libreria, vicino al Teatro Odèon, ricorda che Chirac è crollato nei sondaggi, d'improvviso e precipitosamente. Ci si aspettava il contrario a causa della fermezza sulla Bosnia, ci si attendeva una popolarità come la ebbe Margaret Thatcher durante la guerra delle Falkland, e invece il Presidente non ha guadagnato nul¬ la: «I francesi non son stupidi come gii inglesi - dice la librala - Chirac aveva fatto tante promesse sull'occupazione, l'attesa era enorme e invece non fa niente. I francesi sono delusi, e anche arrabbiati per l'isolamento del Paese a seguito della storia di Mururoa. La durezza mostrata dall'Eliseo sulla Bosnia non cambia questo stato d'animo, anche se è una durezza giusta. Né cambia le cose la sua presa di posiziono sulle responsabilità dello Stato francese per il fascismo di Vichy. Chirac sembra convinto che il pensiero della guerra cancelli le quotidiane preoccupazioni economiche, nella gente. Ma la guerra non è una soluzione dei mali interni: questo pensano i francesi». Ma Parigi non è solo il sesto arnmdissemenl, attorno a Saint-Ger- main-des-Près, con i suoi caffè loquaci, le sue librerie e i turisti che s'aggirano come cannibali all'amati di Ville Lumiere. Non è solo questa cartolina colorata e mitica con sopra i ritratti dell'Odèon e dell'Hotel Dieu, di Notre Dame e dei suoi palazzi con le guglie mediocvali che si specchiano sulla Senna. C'è anche una Parigi araba, a Barbès e a Bolleville, e qui la paura ha ben altra fisionomia. A boulevard Barbès, un barista serve te alla menta ed e cupo: «La notte scorsa non ho dormito un solo minuto dopo l'attentato», dice. Avrebbe molte altre cose da aggiùngere, e incubi da raccontare, e invece si chiude in un'oscurità muta. A Barbès è l'ora di mercato, sulle bancarelle si vendono spezie, peperoncini e molto cipolle. Alcuni s'arrabbiano, pensano che potrebbero esser stati i terroristi integralisti algerini a uccidere: «Pagheremo noi, per il sangue che loro hanno versato». E vogliono diro che pagheranno i musulmani, pagheranno le periferie dove abitano: ormai quasi tutti appioppano ai musulmani il nome di integralisti, ed eccoli bollati, indicati a vista. Nelli; stesse ore, mentre gli arabi di Belleville prendono d'assalto negozi e mercati, un sindacalo indipendente della polizia, di estrema destra, chiede ufficialmente a Chirac di scacciare gli arabi, giudicati responsabili dell'attentalo, dalle periferie cittadino. Chiede pulizia etnica, nelle metropoli di Francia: il che fa pensare che l'attentato terroristico potrebbe anche venire dal ventre del Paese, dalle sue destre terroriste. Le stradi; di Barbos sono pieno di negozi di scarpe, centinaia di scarpe buttate una sopra all'altra come pesci a bocca aperta: gli arabi di Parigi camminano molto, in una metropoli dove in queste ore son guardati con sospetto. Poi ci sono le comunità serbe, a Parigi cosmopolita. Sono comunità forti, chiuse nei loro circoli, son venute in Francia perché questa è la loro terra d'elezione, fin dall'inizio del secolo, mentre invece i croati vanno piuttosto in Germania o Australia. Il giornalista di Liberation spiega che esiste anche un milieu serbo, una malavita semiclandestina composta in buona parti! di commercianti d'armi, che potrebbe Far traffico di esplosivi In un ristorante serbo, non lontano dalla Bastiglia, il padroni! e la moglie guardano biecamente l'avventore francese, ascoltano a malapena l'ordinazioni! - carne allo spiedo, contorno ridondante di cipolla cruda - e faticano a spiccicare parola. Sono pili che scontrosi: sono ostili decisamente, incattiviti. «Si, siamo di Belgrado», e la moglie alza gli occhi al cielo con lo sguardo di una vittima. I serbi si sentono un pòpolo di vittime, di umiliati ingiustamente. E' in questo sentimento che si nasconde la forza inaccessibile del loro risentimento. Ma soprattutto si senton offesi e traditi dalla Francia, che credevano una nazione amica per antichi legami storici Non capiscono l'avversione die Parigi prova nei confronti di Belgrado. Già Mitterrand li irritava, nonostante le suo posizioni filo-serbe. Ma Chirac ha del tutto rotto l'incanto, se mai c'è stato incanto. Chirac che parla di fascisti e barbari serbi supera la loro comprensione. Sulla parete del ristorante, accanto alla porta, c'è un grande ciclostilato che propaga la dottrina panserba, a lettere cubitali Stranamente tuttavia, i padroni hanno dimenticato un vecchio calendario nella cabina del telefono: il calendario è musulmano, in alto sui giorni campeggia la fotografia di una moschea. Anche i serbi hanno paure, ma diverse dagli arabi o africani musulmani: paure più aggressive, meno timide. Dicono che loro non hanno mai fatto terrorismo all'estero, e hanno ragione: a differenza dogli islamici, non l'hanno mai fatto: tranne un giorno del 1914, quando un terrorista serbo sparò sull'arciduca austriaco. Fra qualche giorno ricorrerà l'ottantunesirho anniversario di quella data, che iniziò il secolo dei più grandi orrori bellici. Barbara Spinelli Una donna: dovevano colpire i politici, non prendersela con cittadini innocenti Al mercato arabo «Pagheremo noi per questo sangue» Da sinistra, uno scorcio del Quartiere Latino, alcuni feriti a un bar e il cordone di polizia all'ingresso del metro