«Dai muiaheddin la salvezza» di Giuseppe Zaccaria

«Dai muiaheddin la salvezza» «Dai muiaheddin la salvezza» La brigata islamica, terrore dei cetnici NELLA CITTA' ASSEDIATA SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Alaheddin Khadach era un siriano di 28 anni molto mite, molto disponibile, molto religioso: era arrivato nell'88 per fare il medico, aveva conosciuto Sana, l'aveva sposata con rito strettamente islamico, con l'inizio della guerra si era arruolato. La sera del 6 dicembre del '92 senti alla radio che a Stup, nella nuova Sarajevo, c'era stato un bombardamento e non c'era gente in grado di soccorrere i feriti. Baciò la moglie, il figlio Abdulrahman, uscì di casa e un'ora dopo morì col cuore spaccato da una granata. Alaheddin è ancora oggi il solo combattente di un Paese arabo che ufficialmente risulti morto per difendere la Bosnia. In realtà ce ne sono stati e ce ne saranno molti altri, questo lo sa chiunque. Come tutti in queste ore sentono dire che da Medio e Estremo Oriente sono migliaia quelli che chiedono di venire, che continuano ad ingrossare le falangi dei «volontari di Allah». E' una storia ancora tutta da scrivere questa, circondata com'è dal silenzio delle fonti bosniache, solitamente così disponibili, ed anche da un certo imbarazzo. Il fatto è che nonostante continui ad utilizzarli, a impiegarli nelle azioni più difficili e sanguinose, neanche l'esercito bosniaco è contento di convivere coi «mujaheddin». Il comando del «Prvi Korpus», quello che difende Sarajevo, è in una viuzza del centro chiusa dai due lati e presidiata all'ingresso dall'unica sentinella del mondo che abbia l'autorizzazione a restare seduta. E' quasi un cartello umano, quel soldato, un ammonimento vivente: una mina gli ha tranciato i piedi fin quasi a metà. Se arriva un giornalista lui controlla la tessera poi indica il vialetto che conduce all'ufficio stampa dell'Armata, se il visitatore è un silenzioso giovanotto con la barba nera chiama la polizia militare e glielo consegna. Chissà come faranno ad arrivare, i nuovi volontari, posto che alle frontiere i controlli si sono fatti ferrei. Dei vecchi non se ne vede in giro neanche uno, sia perché di gente a Sarajevo se ne incontra poca sia perché il momento richiede che tutti i combattenti siano sulle montagne. I «mujaheddin» si direbbero scomparsi. Sara stato un mese che ho visto l'ultimo, mangiava da solo a un tavolino di «Zeljo», piccola taverna del centro, circondato da una certa freddezza. Aveva alzato gli occhi solo quando l'operatore di chissà quale tv, uno nuovo del posto, aveva chiesto una birra. E quello aveva optato per una Pepsi-Cola. «Questa è materia delicata», mi sta dicendo Husein Cizmic, un letterato prestato alla guerra che per il primo corpo d'armata coordina i rapporti con la stampa. «Solo lo stato maggiore, se vuole, può fornire informazioni sui volontari islamici. Ma non credo lo vorrà». Potrà anche apparire strano, ma in realtà a segnare i rapporti fra esercito bosniaco e volontari islamici sono state due foto. Penso clie chiunque le ricorderà, un paio d'anni fa avevano fatto il giro del mondo: mostravano un «mujaheddin» saudita che sulle montagne di Travnik esibiva trionfante la testa di un serbo ucciso. Ai suoi piedi c'era un cesto con altre quattro teste mozzate. Quelle foto consentirono ai serbi di dire: «Vedete i veri responsabili delle atrocità?». Il rapporto probabilmente era di cento a uno, ma la cosa non poteva passare sotto silenzio, a Sarajevo. Da quel momento i volontari islamici inquadrati nell'«Armija» vennero raggruppati e tenuti più sotto controllo. Adesso sono un po' meno di duemila, appartengono al settimo corpo d'armata di stanza a Travnik, sono riuniti nella «Muslimanska Brigada» e hanno finito col segnare talmente la storia di quel settore da essere identificati in tutta la Bosnia come «La brigata di Travnik», forse il solo nome che possa gelare il sangue nelle ribollenti vene di un serbo. «Combattiamo per Allah - La ilahe illallah - E nessuno ci fermerà - La ilahe illallah». Il loro inno dice più o meno così, e scusate se nella traduzione la marcia di guerra finisce col sembrare una canzone per bambini, vi assicuro che dal vivo non ha proprio nulla di giocoso. Quel «La ilahe illallah» (non esiste Dio al di fuori di Allah) è scritto anche sulle fasce che portano legate alla fronte, sotto il basco verde. Hanno il miglior armamento di cui l'esercito di Sarajevo possa disporre, a comandarli c'è un ufficiale che viene dalle Krajine ed ha alle spalle una storia tragica. Raccontano che il colonnello Sejo Kubura, nato a Sanski Most nei pressi di Banja Luka, prima della guerra fosse un musulmano come tanti, in Bosnia. Un uomo che beveva quando ne aveva voglia, non aveva alcuna intenzione di prendere più mogli in quanto abbastanza stufo della sua, uno normale insomma. Poi con gli inizi della guerra i serbi delle Krajine decisero di riprendersi la «loro» repubblica, la terra del sacrificio per generazioni di contadiniguerrieri. Lo fecero infliggendo identici sacrifici a tutti i musulmani dell'area. La storia a questo punto si fa confusa, nessuno sa bene se il colonnello Kubura abbia visto violentare e uccidere solo la moglie o anche la moglie e i figlioletti, fra cui una ragazza di sedici anni. Da allora si è arruolato ed è diventato semplicemente «Kubura», nome che adesso assume un suono sinistro. La «kubura» era Tanna ad avancarica delle legioni turche, qualcosa a metà fra la grossa pistola e il fucile piccolo: assieme con la scimitarra, il simbolo della conquista ottomana. Adesso Kubura si è tramutato in simbolo della riscossa per una brigata di fanatici di cui l'«Armija» non può fare a meno, ma che pure nasconderebbe volentieri. La Brigata di Travnik è quella della guerra sporca, delle azioni impossibili, quella che nei momenti più duri s'è incaricata di rispondere con fanatismo a fanatismo, col terrore all'azione terroristica delle brigate serbe. Non rammento esattamente la data, ma l'anno scorso furono i «volontari di Allah» ad arrampicarsi nottetempo sul monte Igman, in quel momento conteso fra bosniaci e serbi. C'erano metri di neve, Sarajevo era bombardata di continuo, fra gli assedianti montava uno di quei momenti di euforia che per la città si traducono in morte e indiscriminato tiro al bersaglio. Sull'Igman in quel momento era di stanza il «Sarajevsko Romaninski Korp», gruppo d'elite dell'esercito di Karadzic, intitolato alla collina su cui sorge Pale. Al mattino, i serbi trovarono i corpi sgozzati di diciotto soldati fra cui due donne, infermiere. «La ilahe illallah»: lanciando quel grido, durante la guerra croato-bosniaca un «mujaheddin» a Vitez si era imbottito di tritolo per poi lanciarsi a piedi contro un carro armato. Saltò in aria portando con sé sei soldati nemici. Eppure questi guerrieri scomodi servono, serviranno ancora: se l'Occidente non farà qualcosa, ne serviranno sempre di più. La Croazia sta praticamente blindando le proprie frontiere, qualsiasi persona dal colorito scuro, dai documenti meno che chiari viene bloccata e rimandata indietro. Pochi giorni fa a Metkovic, posto di confine fra Croazia ed Erzegovina, la verifica di passaporti e autorizzazioni, solitamente spedita, aveva richiesto quasi un'ora. Alla fine riportandomi il passaporto un poliziotto croato ha spiegato: «Sa com'è, col suo cognome...». Giuseppe Zaccaria

Persone citate: Abdulrahman, Brigada, Husein Cizmic, Karadzic, Kubura, Sejo Kubura, Vitez