VIA EMILIA l'America dei miraggi

VIA EMILIA le strade delle vacanze. Da Piacenza a Rimini, un fiume di asfalto e canzoni VIA EMILIA lAmerica dei miraggi SULLA VIA EMILIA DAL NOSTRO INVIATO Lasciate perdere la «One-0One», ormai è il nome di una bibita o di una radio, non più quello di una strada nella leggenda. Dimenticatevi pure la surgelata Blue Way in Scandinavia o l'incandescente Mexico One nella Baja California. Se siete viaggiatori on the road, gente per cui la meta è il percorso e nient'altro al di fuori di quello, l'estate del '95 potete passarla in Italia, solcando strade che avete sempre attraversato senza guardarle, mettendo nell'autoradio, altroché country, musica leggera contemporanea. Cominciando dalla via Emilia: un fiume di asfalto e detriti, duccentocinquanta chilometri di canzoni e memoria, un rap di insegne americano-romagnole, una discarica dei gusti e un patchwork delle civiltà, un universo senza sincronia temporale, dove l'annuncio delle città è dato dalle cattedrali dello shopping di giorno e dai fari accesi in faccia alle prostitute nigeriane di notte. Da Piacenza a Rimini, da Orietta Berti a Luciano Pavarotti, passando per Francesco Guccini e Zucchero «Sugar» Fornaciari, «dalle fabbriche alle lampare, adelante adelante, l'arrivo è distante, è alla fine di questo tavolo, di questo cavolo di pianura, di questa terra senza misura, che confonde la notte e il giorno e la partenza con il ritorno e la ricchezza con il rumore».*. •= . j Adelante, senza gli sguardi-fanali proiettati in avanti dai camionisti e dai turisti rotolanti verso il mare, ma piuttosto con gli occhi ai cigli della strada, dove si è depositata la traccia di chi, non potendo viaggiare, si è inventato lì un mondo e ha fatto finta che fosse l'America o di chi ci è stato abbandonato, buttato dall'auto in corsa della sua personale storia, in un giorno d'estate in cui l'aria era polvere e il resto della vita una bottiglia da vuotare in frotta senza far troppo caso al sapore. Più o meno come la bottiglia di Ortruga dei Colli piacentini che se ne sta accanto a quella di acqua minerale sul tavolo coperto ria una tovaglia bianca a segnalare la trattoria e a fare da vera pietra miliare del chilometro uno, a pochi passi dal cartello che annuncia la realizzazione del nuovo centro commerciale di quartiere «Il Montale». Il quartiere non c'è, intorno è campagna e stazione di servizio Esso e «Motel K2», ma i' quartiere arriverà, quando sarà stato costruito il centro com- mereiaio, perche ò da quel che viene ritenuto essenziale che si comincia. Secoli fa orano le porte e lo mura romano ad annunciare l'ingrosso in queste città, adesso sono gli shopping center: «Meridiana» a Reggio Emilia, «Leonardo» a Imola, «I Portali», nome che conferma la funzione, a Modena. Li superi e vai. Adelante, su questo tappeto rullante inceppato, dove gli orologi dei campanili non sono mai sincronizzati con quelli digitali che, a intermittenza, annunciano temperature da Death Valley. Adelante su questa sequela di cartelli stradali che indicano, più che i paesi, l'anima nascosta del percorso, strada di passione (Arda Sesso Alseno!) e morte IMalandriano Bagno Sanguinare) ma non privo di poesia (Montale Rimale Parola). Giochi enigmistici da viaggiatori che non vogliano lasciarsi ipnotizzare dal miraggio dello curve, invocato per nascondersi la crudeltà dell'avvenire di guidatori; da stradanauti intenzionati a non cadere nella trappola dello insegne che, da quando Guccini si ò ricordato che «bastava fare due passi o attraversare una strada e c'erano già indiani e cow-boys, cavalli e frecce» e ha cantato Fra la via Emilia e il West, sono partito por gli States con un biglietto di sola andata e ti balbettano la presenza del camping Arizona la Fidenza) e quella della manifattura Rainbird (a Cadeo) mentre i cartelloni annunciano l'imminente esibizione canora del «grande Ringo Story», from Nashville to Roveleto, in attesa che all'incrocio con la via Prosciutta, realmente esistente tra Imola e Faenza, sorga l'hotel California dove in tanti vorremmo avere l'appuntamento finale con il destino. Nell'attesa si continua a viaggiare, a superare camionisti «ve- lati di sonno, sempre uguali e diversi, comunque che vanno» sull'unica strada che proponga un'alternanza democratica tra feste dell'Unità (pds) e feste di Liberazione (Rifondazione comunista). Eppure una leggenda metropolitana racconta che proprio lungo questo percorso, allo porte di un paese chiamato Cella, è comparsa per la prima volta, tront'anni fa, la scritta «Dio c'è», che ora appare su metà dei cavalcavia autostradali italiani. Prima o no, quella scritta c'è ancora, sul muretto di un oratorio. Ogni tanto la cancellano e dopo un po' riappare, come se quel muretto fosse il simbolo delle nostre menti dubitabonde che un po' credono e un po' vedono il nulla davanti a sé. «Dio c'è» accompagna il resto del viaggio, sul retro di cartelli stradali, sulle pareti di fattorie diroccate. A Castel San Pietro hanno aggiunto, sotto, «Bossi salvaci», ma invertendo l'ordine dei fattori si ottiene il più condivisibile prodotto «Bossi c'è, Dio salvaci». Salvarsi sulla via Emilia, arrivarci per non andare da nessuna parte, proprio per fermarsi lì, come ha fatto Luigi Branduardi, sbarcato nel deserto oltre Fiorenzuola trentotto anni fa e che in quel nulla ha costruito, da solo, asse su asse, un capanno che doveva essere uno spaccio di alimentari e che poi si è ingrandito, senza seguire un progetto, in tutte le direzioni, asse dopo asse, secondo una geometria sbilenca che compensa il rettilineo su cui si affaccia. Quel capanno ora è i magazzino «Il Villaggio», un posto che se ci capita Pupi Avati gli viene la voglia di girare subito un altro horror padano come quelli che faceva all'inizio. Gli basterebbe vedere le trecce d'aglio sospese sopra l'ingresso e lo scritte a mano su scatole di scarpe che reclamizzano i prodotti e il manifesto con Gigliola Cinquetti che consiglia il tè Winston, risalente all'epoca in cui cantava «Giuseppe in Pennsylvania cosa fai? L'America hai vista tutta ormai» e soprattutto la faccia del signor Branduardi, dopo trentotto anni sul bordo della via Emilia dove si è rifugiato venendo da Milano. «Perché là - spiega - c'era troppo traffico, troppo caos» e allora è venuto qui, dove le accelerazioni dei Tir gli hanno portato via i capelli e i gas di scarico delle utilitarie gli hanno riempito i sospiri. «Eppure c'è pace», dice, mentre «il sole all'orizzonto colora la vetrina e stampa lampi e impronte sulla pompa da benzina». Non si muoverebbe mai da li, come non si muoverebbero le decine di vecchi che incontri, seduli su una seggiola, in canottiera bianca e cappello di paglia, parcheggiati fuori casa a guardare le auto passare, vedovi della nonna Diamante che a Zucchero raccomandava «Delmo, vin a cà» (Adelmo, vieni a casa), ai quali nipoti vendicativi hanno ingiunto: «Nonno, va mò fora». E loro hanno obbedito, stanno lì, guardano e dimenticano, per soffrire di meno e per sperare, la fino, di dimenticarsi anche di morire. Intanto dimenticano il passato, come ha fatto la strada, che a San Lazzaro erige il cimitero dei polacchi e promette imperitura memoria a chi venne qui a morire per la libertà degli italiani, ma pochi chilometri prima, a Bagno, raduna in uno spiazzo arido un grappo di esuli da Varsavia e dintorni che vendono mercanzia del loro Paese in cambio di disattenzione e disprezzo; che affida a un mazzo di fiori di plastica «made in China» e a una scritta sul retro di un cartello dell'Enel il ricordo di Davide e Paola, finiti nel fosso in una notte d'estate tornando da chissà quale discoteca, nelle orecchie chissà (pialo canzono. Non dimenticata è invece Orietta Berti che un tempo aveva il suo locale a Sant'Ilario d'Enza, «L'Istrione», ma ancora oggi prometto esibizioni a Montecchio e magari canta anche la canzone a cui diodo lo stesso nome di suo figlio, chiamato Omar perché avesse un cuore gitano e lui una volta si preso sul serio, parti e si spinse fino a Rubiora «poi disse ho visto orienti magici, almeno aveva avuto della fantasia, i compaesani che applaudivano, solo invidia e ipocrisia». Gli stessi che, da vivo, non apprezzarono mai Ligabuo e lo suo visioni su tela e adesso gli dedicano perfino un localo dove si fanno «pizze anche a mezzogiorno» e se lui ci fosse ancora potrebbe «straziante d'estri tristi, annegare la più assetata arsura nel frullio» prima di cancellare lutto con una pennellata e andarsene lungo la strada percorrendo l'autentica vena di follia che scorro nello aziende e nei negozi che la fiancheggiano: la fabbrica di uova di Pasqua chiamata Nepal che propone straordinarie liquidazioni fuori stagione e ammucchia sotto l'insegna spenta «Auguri» una montagna colorata di «vestiti» stropicciati che ricoprivano uova mal riuscite, il mega-cubo d'argento chiamato «Allegro Fortissimo», costruito a dimensione delle maxi-taglie che vende, propagando lo stereotipo dell'Emilia grassa, cosi come l'altro mostro argenteo, il dancing «Le Cupole», una successione di semisfere rilucenti su un piazzale di cemento che sembra la base d'atterraggio di una squadriglia extraterrestre, ripropone quello della regione che baratterebbe secoli di storia con una notte di danzo, pronta comunque a portare la musica dovunque, come ha fatto don Franco Lumetti, che a Rubiora ha creato uno studio discografico, frequentato anche da Zucchero, in un essiccatoio di formaggi. Piede sull'acceleratore, allora, non già perché si ascolla il richiamo del maro («sai che ognuno c'ha il suo mare, dentro al cuore sì e che ogni tanto gli fa sentire l'onda, sai che ognuno c'ha i suoi sogni da inseguire si, per staro a galla o non affondare»), ma per sfuggire all'intricata selva di mobilifici che proietta sinistre ombre di credenze in simil noce e salotti completi in scai da Anzola a Santarcangelo di Romagna, dove la strada è già discesa e scivolo verso la costa di Rimini, perdendosi nell'Adriatica o nell'Adriatico, a seconda dei punti di osservazione, lasciandosi alle spallo le invocazioni di un gommone che, tramile cartello, annuncia sconsolato «Mi vendono» o forse cerca ruffianescamente di suscitare commozione e farsi portare via dalla strada, via anche lui, a rimorchio di un'auto di vacanzieri, finché «dietro una curva, improvvisamente il mare e noi che siamo gente di riviera dove passano i cuori d'avventura, noi non ci sappiamo perdonare di non sapere ballare e noi non ci sappiamo raccontare quand'e il momento nei bar davanti al mare» e allora scegliamo il silenzio e scegliamo la strada e la ripercorriamo all'indiotro, come se fosse il solo modo per andare ancora avanti e lasciamo che sia loi a raccontarci ancora, di tutto quello che hanno abbandonato ai suoi bordi, perché fosse retrovisto o dimenticato e invoco resta, come il ritornello di una canzone che neppure ci è mai piaciuta. Gabriele Romagnoli Dancing e mobilifici, mostri d'argento e piazzali di cemento che sembrano piste di atterraggio ■per extraterrestri Insegne che parlano di Arizona e California all'incrocio con la via Prosciuga Fra turisti rotolanti verso il mare, l'anima nascosta d'un percorso di passione e di morte ggria e a fare da vera pietra miliare del chilometro uno, a pochi passi dal cartello che annuncia la realizzazione del nuovo centro commerciale di quartiere «Il Montale». Il quartiere non c'è, intorno è campagna e stazione di servizio Esso e «Motel K2», ma i' quartiere arriverà, quando sarà stato costruito il centro com- «grande Ringo Story», from Nashville to Roveleto, in attesa che all'incrocio con la via Prosciutta, realmente esistente tra Imola e Faenza, sorga l'hotel California dove in tanti vorremmo avere l'appuntamento finale con il destino. Nell'attesa si continua a viaggiare, a superare camionisti «ve- un po' credono e un po' vedono il nulla davanti a sé. «Dio c'è» accompagna il resto del viaggio, sul retro di cartelli stradali, sulle pareti di fattorie diroccate. A Castel San Pietro hanno aggiunto, sotto, «Bossi salvaci», ma invertendo l'ordine dei fattori si ottiene il più condivisibile prodotto «Bossi c'è, Dio salvaci». Salvarsi sulla via Emilia, arrivarci per non andare da nessuna parte, proprio per fermarsi lì, come ha fatto Luigi Branduardi, sbarcato nel deserto oltre Fiorenzuola trentotto anni fa e che in quel nulla ha costruito, da solo, asse su asse, un capanno che doveva essere uno spaccio di alimentari e che poi si è ingrandito, senza seguire un progetto, in tutte le direzioni, asse dopo asse, secondo una geometria sbilenca che compensa il rettilineo su cui ggg,psto che se ci capita Pupi Avati gli viene la voglia di girare subito un altro horror padano come quelli che faceva all'inizio. Gli basterebbe vedere le trecce d'aglio sospese sopra l'ingresso e lo scritte a mano su scatole di scarpe che reclamizzano i prodotti e il manifesto con Gigliola Cinquetti che consiglia il tè Winston, risalente all'epoca in cui cantava «Giuseppe in Pennsylvania cosa fai? L'America hai vista tutta ormai» e soprattutto la faccia del signor Branduardi, dopo trentotto anni sul bordo della via Emilia dove si è rifugiato venendo da Milano. «Perché là - spiega - c'era troppo traffico, troppo caos» e allora è venuto qui, dove le accelerazioni dei Tir gli hanno portato via i capelli e i gas di scarico delle utilitarie gli hanno riempito i sospiri. ,di morire. Intanto dimenticano il passato, come ha fatto la strada, che a San Lazzaro erige il cimitero dei polacchi e promette imperitura memoria a chi venne qui a morire per la libertà degli italiani, ma pochi chilometri prima, a Bagno, raduna in uno spiazzo arido un grappo di esuli da Varsavia e dintorni che vendono mercanzia del loro Paese in cambio di disattenzione e disprezzo; che affida a un mazzo di fiori di plastica «made in China» e a una scritta sul retro di un cartello dell'Enel il ricordo di Davide e Paola, finiti nel fosso in una notte d'estate tornando da chissà quale discoteca, nelle orecchie chissà