LA GRANDE MELA COLOR DEL SOGNO

LA GRANDE MELA COLOR DEL SOGNO LA GRANDE MELA COLOR DEL SOGNO L'America di Zucconi, così violenta e civile M M In viaggia nelle metro/ioli (imbrunane con I illorio Zucconi: rial le ■■ Mirarle cimici7» ili San Francisco ai casinò rli l.nx I eiais quale, e dove? Quella in cui sarebbe impossibile pensare a reti televisive nazionali, non fosse altro a causa dello scarto temporale imposto dai fusi orari. Chicago è allora il suo centro affascinante dovuto ad alcuni dei più grandi architetti del secolo, la città di Saul Bellow e dei ghetti, della «violenza e del dolore», con la «cordialità scontrosa e ruvida di una città dura come il suo profilo», dove uno può sentirsi emozionato, coinvolto, «ma felice no». Zucconi ha messo radici da tempo, in questa America, l'ha raccontata e la racconta a una legione di lettori - ora quelli di «La Stampa» -, ma non ha mai, come si suol dire, sposato la causa. Scherzando, ama dire che un giorno gli piace e il successivo no; conta che la sua partecipazione non offuschi il distanziamento, quando ne sia il caso, e lo riconosce uno che mantiene con l'America un rapporto quasi viscerale da decenni, salvo a darsi delle bacchettate per tornare alla realtà. Nella quotidianità, Zucconi introietta senza sforzo la storia, che entra subito in circolo; la storia, non lo storicismo, malattia che noi italiani tendiamo a contrarre già nel periodo dell'allattamento. Così, a proposito di New Orleans, la città del carnevale, del jazz e del voodoo, vero o prefabbricato, ci rammenta che vi fu costruito il secondo stadio del razzo Saturno, capace di spingere l'Apollo sulla Luna, ma pure che vi nacque l'assassino di John Kennedy, Lee Harvey Oswald, il litana... costata un poco di sangue irlandese o polacco». Volete affrontare il sogno sotto un'altra angolatura? Ecco Hollywood: «Un guscio di noce vuoto, gonfio di nostalgia e di sogni finiti», sogni lasciati alla nostra immaginazione, «come forse è giusto che sia, trattandosi di cinema». Andate a rileggervi i romanzi di Nathanael West per coglierne il versante più amaro e illusionistico. Ecco allora la realtà palpabile di Los Angeles, questa città fatta di tante città e dunque a suo modo inesistente, con «il fossato che divide la Los Angeles ultraricca da quella ultrapovera» fino a divenire un vero e proprio abisso. L'America non postula un'astrazione (ovvero gli Stati Uniti: giustamente altri americani, dai canadesi a quelli del Sud, si seccano quando si estrapola soltanto quella, come se essi pure non ne facessero parte). L'America, ammonisce opportunamente Zucconi, «non ha un capo o una coda, non ha un inizio e una fine». New York non si può avvicinare a San Francisco, Chicago, la «Giungla» di Upton Sinclair, uno degli scrittori che meglio la rappresentò, «Porcopolis», capitale dell'industria conserviera, non ha nulla a che fare con New Orleans. Viene alla mente l'appropriata derisione di cui fu oggetto, molti anni or sono, il giornalista inglese che si domandava che succede se in America piove a dirotto il giorno delle elezioni presidenziali. L'America TUTTI conoscono New York perché New York siamo noi tutti che ne calpestiamo i marciapiedi, per un'ora o per una vita... New York è subito nostra... New York ci appartiene». Estraggo da un più ampio periodo un paio di osservazioni cruciali, e chiedo scusa a Zucconi per l'amputazione ai danni del suo ritratto della New York universale, la quale appartiene, vorrei aggiungere, persino a chi ne rimane abbacinato, stravolto, o pensa di non amarla affatto. Zucconi coglie qui un nodo essenziale della Grande Mela, e lo risolve nelle solide giunture del linguaggio. Penetra, cioè, in quello che un grande scrittore inglese, Max Beerbhom, definiva «il Santo Graal della parola giusta». Arriviamo così alla parola, oltre che giusta, chiave, che già si impone nel titolo, «sogno». Per New York, si tratta fin dall'inizio del «sogno in tasca» con cui vi sbarcarono, «non molto tempo addietro..., le pezze al sedere e una disperata voglia di tornare a casa», i suoi abitanti, per scoprire che «a casa erano finalmente arrivati». Ma il sogno americano, questo grande stereotipo che intellettuali, politici, uomini comuni, viaggiatori a partire da Tocqueville hanno inventato, esaltato, manipolato, fino a tirarlo da tutte le parti come la pasta, ha preteso un prezzo spesso elevato, sin dalla «traversina della metropo¬ Solo Fedro, sentendosi mal compreso, preferì piacere a pochi eletti Da Ovidio a Marziale: la poesia lascia l'elite per il grande pubblico CA ERA qualcosa di W simile a Tuttoli✓ bri nella Roma di duemila anni fa? E cioè, esisteva un filtro o passaggio intermodio tra la letteratura e il pubblico, che consentisse a quest'ultimo di farsi un'idea fondata e documentata sul contenuto, sull'interesse e sul valore dei libri prima di decidere se acquistarli? Alla domanda posta in questi termini, la risposta non può che essere, ovviamente, negativa. Anzitutto per la semplice ragione che non esistevano i giornali, salvo brevi comunicati detti «Acta diurna» che si occupavano dei fatti pubblici principali e non della letteratura. Inoltre per l'altrettanto semplice ragione che non esisteva il pubblico come noi l'intendiamo, essendo l'arte di leggere assai meno diffusa e generalizzata che da noi. Eppure, il problema del rapporto tra scrittori e lettori era vivo e reale, anche se in termini diversi: indagando i quali si può meglio conoscere, per confronto, la nostra realtà contemporanea. Cominciamo dunque con il ricordare che gli autori scrivono sempre per qualcuno: oggi per un vasto pubblico, solo limitato dall'argomento che può interessare alcuni e altri no; duemila anni fa per un ri- stretto ambiente di corte o di circoli letterari, legati peraltro alla corte dal fenomeno tipico (quanto più tipico che da noi!) del mecenatismo. Eppure, proprio quella letteratura rivela, nell'età del suo massimo fiorire e cioè sotto Augusto, «il superamento della dimensione di cerchia, la esplicita ambizione a una dimensione generale»: queste parole di Mario Citroni, nel suo approfondito e originale saggio Poesia e lettori in Roma antica, definiscono bene il fenomeno a seguito del quale diventa più difficile, per non dire impossibile, riconoscere diversità di contenuto e di stile connesse con le occasioni e le intenzioni del comunicare. Evidentemente, il pubblico da raggiungere è divenuto più ampio e vario. Con Ovidio, in particolare, si inaugura una modalità nuova nell'approccio del poeta al pubblico dei lettori: il sistema dei riferimenti a destinatari individuali entra in crisi e tende a essere sostituito da riferimenti destinati al lettore generico, che intanto è aumentato di numero e di consistenza. Ma per tornare al quesi- la, indipendentemente o quasi dagli eventi specifici a cui si riferisce il discorso oratorio. Questo fenomeno, oggi, non esiste più o è molto ridotto: al suo posto, tuttavia, può essere indicata (e vale anche per l'antica Roma) la recitazione in teatro. Alcuni generi letterari ci appaiono come esponenti della maggiore diffusione tra il pubblico, in ragione del loro contenuto che esercita un'attrazione particolare. E' il caso della poesia epica, che si afferma con Lucano: ha grande interesse il commento di Marziale secondo cui, al di là delle polemiche se la sua opera rientrasse nell'ambito della vera poesia o fosse storia versificata, i lettori decretarono il valore di quel poeta; e del pari lo decretarono i librai. D'altronde, lo stesso Marziale esprime e porta al successo un genere di letteratura particolarmente amato dal grande pubblico: quello della critica sociale, del bozzetto sapido, dei mille e mille caratteri che, con i relativi episodi, s'impongono nella memoria di chi cerchi concretezza, realismo, vivacità, anticonformismo. Tutto