Il teatro ricorda l'Europa che fa

Il teatro ricorda l'Europa che fa A Cividale del Friuli il «Mittelfest», punto di incontro tra culture Il teatro ricorda l'Europa che fa Anche l'exJugoslavia in un'animatissima rassegna CIVIDALE DEL FRIULI. Giunto alla quarta edizione e avendo superato varie vicissitudini, l'ancora giovane Mittelfest di Cividale si conferma come uno degli appuntamenti più stimolanti e originali dell'annata, nella sua aspirazione a costituire, da una collocazione geografica particolare - l'Austria e la ex Jugoslavia sono a pochi chilometri - un punto di incontro e di scambio culturale fra popolazioni che mai come adesso hanno bisogno di ricordare il valore della coesistenza pacifica. Durante sei giorni (19-23 luglio) la cittadina è bombardata di proposte in più campi - teatro, musica, balletto, marionette, ecc. - nate qui o in visita da Zagabria, Praga, Vienna, Budapest. Quasi nessun evento viene replicato, e tutti avvengono nella loro lingua originale, il che non impedisce un concorso sempre fittissimo di spettatori; questa anzi è forse la caratteristica più accattivante del Festival, almeno per chi è abituato a girarne tanti e spesso ahimè a constatarne la nascita o la sopravvivenza più per la tenacia di operatori che hanno quattrini da spendere, che per una autentica richiesta locale. All'opera in un atto di Béla Bartòk «Nel castello del principe Barbablù», data di sera e all'aperto, assistevano centinaia di persone di cui molte in piedi e magari con i bambini in braccio, mentre a Roma, per intenderci, il grandissimo compositore ungherese è considerato ancora pericolosamente moderno e difficile, e quando viene dato a Santa Cecilia un certo numero di abbonati resta a casa. Ecco una breve cronaca della giornata inaugurale, del resto tipica anche delle altre. Il Festival è stato aperto da una festosa pa¬ rata per le strade da parte di una banda di Klagenfurt, ovviamente in costume, che ha preceduto sei magnifici cavalli lipizzani (Lipica o Lipizza dove questi grigi vengono allevati e addestrati è in Slovenia, a un passo da Trieste) in un prato verde, dove questi hanno danzato su note di Beethoven - le sue rare composizioni appunto per banda - in mezzo a un quadrato con la gente in piedi, alla buona; poi le autorità hanno pronunciato sobri discorsi, in cui ricorreva spesso la parola speranza. Dopo è stata aperta una mostra di fotografie il cui soggetto era Tadeusz Kantor, e dopo ancora ci si è trasferiti dentro un deposito ferroviario abbandonato, lungo e scuro ma con le porte suggestivamente aperte su squarci tu traversine in disuso nella luce, un paesaggio quasi da western. Qui Paolo Bonacelli coadiuvato da Riccardo Zinna che oltre a fargli da spalla suonava tromba e chitarra, e da un contrabbassista, ha letto per 70' con la sua solita finta accidiosità, aggirandosi fra banchi e lavagne come di una scuoletta evacuata, brani da una sorta di diario fra il filosofico e l'autobiografico di Cesare Tomasetig, acuti e talvolta anche appassionati (per esempio, nella contemplazione del crogiuolo di grandezza che la Mitteleuropa è stata e potrebbe continuare ad essere), ma malgrado l'impegno della regia di Giuseppe Rocca resi faticosi dalla assoluta mancanza di un filo narrativo. Dopo ancora, prima che in piazza si svolgesse «Lepa Vida», fiaba popolare slovena raccontata per immagini dal teatro Mladinsko Lubiana, ha avuto luogo in un altro spazio strano e meraviglioso, contro la lunga parete di un minaccioso cementificio abbandonato, l'esecuzione in forma di concerto del predetto «Barbablù» di Bartòk. Giorgio Pressburger, regista, ha fatto precedere il concerto, cantato in ungherese, dalla recita a due voci della traduzione italiana del libretto di Béla Balàsz, superlativa prova di Roberto Herlitzka e Franca Nuti; dopodiché, ispirandosi a quanto pare a un saggio di George Steiner sul mito alla base dell'opera di Bartòk, ha animato il resto con proiezioni e altri espedienti (fumoni, fuochi accesi) talvolta un po' chiassosi, ma efficaci e molto graditi dal pubblico, oltre che in linea con il carattere anche un pochino magico, nostalgico e fiabesco, di tutta la manifestazione. Ma solino d'Amico Paolo Bonacelli ha letto con la sua solita finta accidiosità, aggirandosi fra banchi e lavagne come di una scuoletta evacuata, brani da un diario fra il filosofico e l'autobiografico di Tomasetig