La Penelope del bandito

le cattive ragazze. La moglie di Matteo Boe: da Modena alla Barbagia le cattive ragazze. La moglie di Matteo Boe: da Modena alla Barbagia \La Peneloùe del bandito LULA (Nuoro) DAL NOSTRO INVIATO La «donna del bandito» - come i rotocalchi la chiamano, facendola infurentire - ha una bella voce, alta e forte. Il tono è deciso. No, interviste non ne vuole: troppi giornalisti bugiardi, troppi media demagogici e ipocriti. Accusa, ricorda. Teme, soprattutto, che si trasformi in fumetto la storia del rapporto col suo uomo. «E', semplicemente, la storia di due persone che si incontrano. Poi ti succede di dover affrontare una situazione difficile. Fai una scelta. Non scappi. E ti trovi in un labirinto spaventoso», dice. Nel filo del telefono la cadenza emiliana all'improvviso si accentua. Mentre il timbro si appanna lievemente. Come per far scivolare in una sorta di dissolvenza lo scandalo della sua trasgressione: quella passione amorosa inattuale e irriducibile per cui, poco più che ventenne, ha abbandonato la sua terra, gli studi, il lavoro, un destino di vita comune, e - in un'ostinata fedeltà a quel patto d'amore - s'è inoltrata nei sentieri dell'illegalità, della latitanza, della sfida allo Stato, del carcere, che l'hanno portata adesso - nel cuore della Barbagia. Laura Manfredi - 35 anni, tre figli, nata a Castelvetro in provincia di Modena, «cattiva ragazza» per amore - abita in una casa bianca appena ristrutturata al centro del paese, protetta da un grande cancello verde incassato fra due muri grigi. Sul citofono ci sono il suo nome e quello del suo compagno, Matteo Boe, ora in un carcere di massima sicurezza presso Parigi, considerato - fino al suo arresto nell'autunno del '92 - uno dei venti latitanti più pericolosi d'Italia. Lula, a 40 chilometri da Nuoro, si raggiunge inerpicandosi per decine di chilometri fra ciuffi di macchia, olivastri, querce, picchi di granito, senza mai incontrare una casa. Gli abitanti sono meno di duemila. Tre, in questo momento, i detenuti per sequestro di persona. Otto gli uomini della stazione carabinieri. Un tempo i minatori andavano al lavoro scortati dai carabinieri per evitare che ci fossero contatti fra loro e i latitanti. Col fuoco, nell'estate '92, fu accolto l'arrivo dei militari nell'isola. Bombe e intimidazioni impediscono che si formino le Uste dei candidati: il 23 aprile scorso non si è votato per la sesta volta consecutiva. Laura Manfredi dice: «La mia vita non cambierebbe se vivessi a Parigi». Passa il suo tempo a tempestare gli avvocati e le autorità francesi di telefonate, appelli, ricorsi, denunce. Viaggia. Amministra il bilancio di famiglia, con una parsimonia che in paese lodano e per gli avvocati è uno strazio («Ma è un cavallo pazzo!», protestò davanti alla prima parcella del primo difensore francese). Accudisce i bambini, tutti concepiti durante la latitanza di Matteo: due, di 5 e 4 anni, sono nati sulla Costa Azzurra, della terza - Marianna, di 2 anni e mezzo - era incinta quando il suo uomo venne arrestato, a Porto Vecchio in Corsica, sotto i suoi occhi e quelli dei figli. Si è stabilita qui nel '91 : «L'iniziativa non è stata mia, veramente. E' una cosa che ha voluto Matteo. Ci teneva tanto che i suoi figli crescessero nella sua terra, vicino a sua madre e la sua famiglia. Io non ho opposto resistenza. Sono possibilista di natura». Il gioco delle parti fra lei e Matteo è antico e collaudato. Lui, 38 anni, è bellissimo, con un fisico d'atleta, faccia intensa e spavalda: nelle foto che gli trovarono in tasca nel '92, appare come una specie di Che Guevara, con gli stivali di cuoio al ginocchio, il fucile imbracciato, 3 piglio di un grande narciso (sono le foto che hanno contribuito a far condannare al processo Kassam le due persone ritratte vicino a lui: sarebbero la prova d'accusa che - secondo alcuni - Boe avrebbe «offerto» alle autorità in cambio di chissà quali contropartite). Lei è minuta, il viso severo, un fascio di nervi e di intelligenza, l'abbigliamento casual da ragazza, una difesa senza ombre del suo uomo (per la storia delle foto e dei sospetti sull'integrità di Boe, si è battuta come una leonessa scagionando i due in aula e definendo quelle foto «una leggerezza... un ricordino per i figli... foto di famiglia... una palese strumentalizzazione...»). La loro storia è incominciata all'inizio degli Anni Ottanta. A Bologna. «Lui, col diploma di perito agrario preso a Nuoro, si era iscritto ad Agraria. Io, col diploma di ragioniere, ero venuta via da Modena. Lavoravo, vivevo con un gruppo di ragazze, non avevo nessuna intenzione di andare all'università. Ci siamo incontrati per caso. Fra amici, persone di sinistra come noi. Matteo frequentava ragazzi sardi, ma io so poco di quella loro piccola colonia. Insieme militavamo in uno stesso gruppo, che non era niente di clandestino, aveva una sede regolarmente denunciata in questura. Facevamo politica, ma non eravamo dei carbonari. Era la vita del novanta per cento dei nostri coetanei, figli del '77. C'era il vento del terrorismo. C'era l'autonomia. C'era un pei forcaiolo e repressivo. Noi eravamo molto intransigenti e frazionati. Bastava una virgola e la linea teorica di un gruppo cambiava. Stavamo a fianco dei disoccupati, degli sfrattati, degli operai. Ad alcuni piaceva il rischio. Per altri quella fu una sorta di grande ubriacatura. Come se non avessero tutti già vent'anni e fosse giustificabile - al momento buono scoprirsi inconsapevoli. Molti infatti hanno poi rimosso quell'esperienza. Io no, mai. Anche Matteo era sempre pronto a dare una mano, a intervenire ai dibattiti, partecipare ai gruppi di studio. Ma io penso che lui sia sostanzialmente un ribelle, che non abbia il senso della disciplina. Non so, credo che non sarebbe stato in grado di far parte di un'organizzazione con regole e limiti». La loro storia durava da circa due anni quando Matteo fu arrestato. A Torino, in una piazza, con in mano una borsa contenente 400 milioni. Accusato di essere stato uno dei carcerieri di Sara Niccoli, una ragazzina di San Gimignano sequestrata nel '73 (lei poi in aula lo riconobbe, lui ammise e i giudici gli diedero in appello 16 anni). «Per me fu un fulmine piovuto dal cielo. Non sapevo, non immaginavo niente del genere. Però non pensai neanche per un momento di lasciarlo. Fu naturale mettermi dalla sua parte. Certo, non ero felicissima. Ma non mi si creò nessun problema morale. Non avevo remore per il tipo di reato. Diverso sarebbe stato, che so, per una violenza carnale... Non c'erano figli. Se ci fossero stati... chissà... non so... Le cose non si possono isolare dal loro contesto, io sono una materialista convinta. In quel momento c'erano le condizioni perché la mia scelta potesse essere quella. Fu una scelta emotiva, ma non solo. Contava un modo di essere, un'impostazione di fondo, una certa visione della vita. Sono tante le cose che portano a una scelta». Il patto d'amore fra loro non si è mai spezzato. Lo scambio dei ruoli si è semmai perfezionato. Se lei denuncia sui giornali che «viviamo in uno Stato corrotto, ingiusto, forte con i deboli e debole con i forti», lui rilancia attaccando «quel beduino saraceno» che lo ha indicato come uno dei rapitori del figlio, il piccolo Farouk Kassam. Se lei dice che i sequestri di persona sono puniti così duramente perché «il sequestro colpisce certe classi, le stesse che hanno fatto le leggi»; lui inveisce contro i ricchi «che ci hanno privato di una parte della nostra terra e del nostro mare e ci trattano come loro vassalli o esseri inferiori». Accenti arcaici e ribellismo attualizzato si mescolano nel loro lessico. Lei ricorda: «La vita in cui credevamo, a Bologna, era solidaristica, collettiva, comunista. Allora ci andavano bene anche gli indiani metropolitani, con la loro ansia di riformare i giochi del vivere. Poi s'è visto che erano senza basi, senza programma. Snobbavano gli operai prendendoli per fessi perché lavoravano per il padrone, e sono finiti nella droga o nella corsa per la carriera. Loro erano per la festa. Io per il programma. La festa finisce. Infatti è finita». Nell'34, quando Matteo andò in dera credibili. Sceglie di condurre da Boe uno solo di loro. Benda l'uomo e a bordo della sua macchina, in una sora che piove a dirotto, lo porta in un luogo segreto senza poi assistere alla trattativa. «Matteo non ritenne convincente l'accordo», ha poi spiegato in aula. Passano pochi mesi - è l'autunno e ancora una volta lei gioca un ruolo radicale nella vita del suo uomo. Fu un errore? Un'ingenuità? Un eccesso di sicurezza? Con la sua macchina, i bambini, i suoi documenti d'identità, va in Corsica a incontrare Boc e cosi la polizia lo arresta. Tutta la sua battaglia, adesso, è contro le istituzioni carcerarie francesi, i rigidi sistemi di sicurezza, la sorveglianza giorno e notte, i colloqui negali da dieci mesi ai bambini e appena di recente concessi a lei, l'ipotesi che un'assistente carceraria e non lei sia presente all'incontro dei figli col padre. E' fuori di sé per l'indignazione. Però non spiega perché finora Matteo si è opposto alle richieste di estradizione e ora ha deciso di non fare più ricorsi. «E' una sua nuova linea difensiva. Non vuole morire in Francia», si limita a dire indossando l'abito dimesso della semplice portavoce. Il campanello a fianco del grande cancello verde risuona a vuoto. «Laura ò andata dal dentista, col padre e i figli maggiori», spiega Mariangela Boe. La cucina-soggiorno della sua casa è sottosopra perché appena imbiancata. La mamma di Matteo, tutta vestita di nero, il viso liscio e bellissimo («Ci somigliamo tutti in famiglia», ammette ridente), siede regale su un divano messo di sghembo. Entra la madre di Laura, arrivata da due giorni a Lula, e chiede una padella per fare «lo gnocco fritto: i bambini ne vanno matti». Offrendo cioccolatini e caramelle, si aggirano le nipotine: la piccola Marianna e le figlie di Gianpiero («Lavora in Comune e il pomeriggio va in campagna. Tutti, anche Matteo, hanno conservato l'amore per la campagna dove sono andati fin da bambini», dice la nonna). Si fermano un'altra figlia, Tanina, e una cugina, Francesca. Entrambe insegnano. Parlano di Orgosolo dove la gente è diffidente e ostile, di Lula dove si vive tutti come fratelli perché c'è una solidarietà reciproca da sempre, del disamore dei bimbi per la scuola, del libro che è un tabù, della tv che uccide la creatività dei piccoli, della devianza minorile che cresce, dell'amore per il loro paese... «Noi pensiamo in sardo e traduciano in italiano», dice la nonna. «Io sto in mezzo a voi un giorno intero ed è come se fossi stata sola: non capisco niente», dice la mamma di Laura. Sul palcoscenico della piccola cucina Nord e Sud, tre generazioni di donne, silenzi e allusioni vanno in scena. Mancano i due protagonisti, la «cattiva ragazza» e il bandito, e la loro assenza rende più intensi semmai - i loro personaggi. Finché la nonna, con un cenno, interrompe la conversazione e indica la nipotina Marianna che s'è seduta sul gradino di casa. Appena si avvicinano dei passi, la bimba chiede: «Chi sei? Come ti chiami? Dove vai? Perché sei qui?». Diffidente, come una piccola sentinella a difesa della sua postazione, insiste: «Chi sei? Come ti chiami?...». La nonna spiega: «Lo fa con tutti quelli che passano. E' il suo gioco preferito. Non gliel'ha insegnato nessuno». Sorride. E si stringe sotto il mento le ciocche del fazzoletto nero. Liliana Madeo Così si racconta la donna dell'uomo accusato di aver rapito Farouk. Tre figli concepiti nei giorni della latitanza «Mi dissero: ha rapito una bambina. Non lo lasciai» ta la donna dell'uomo di aver rapito Farouk. Tre figli concepiti giorni della latitanza Qui sopra: Farouk con i genitori. Sotto: Boe nella gabbia durante un processo galera, per lei la vita cambiò radicalmente. «Io ho fortissimo il senso della disciplina. Sono molto rigorosa, quella che si chiama una rompiballe. Quando prendo un impegno, lo mantengo sino in fondo con un metodo - usando un'immagine un po' démodé - staliniano. Che dovevo fare? Chiudermi in casa e piangere in silenzio? Domani tutto può cambiare. Ma finora non ho mai pensato di togliere a lui - che ha davanti a sé tanti anni di galera - quel sostegno di cui ha bisogno. Non quello della crocerossina. Non è nelle mie corde. E non credo che si aspetti questo da me». Non è stata infatti la compagna che nell'ombra vigila e consola. Il 1° settembre '86 lo ha fatto fuggire dall'Asinara. A bordo di un gommone con un motore da 25 cavalli che aveva affittato a Olbia insieme con un carrello, e trasportato fino a Stintino. Un'impresa che nessuno aveva mai osato. Davanti a un'insenatura a Nord Ovest dell'isola, Boe e un compagno s'imbarcarono, poi fra i bagnanti di Stintino tutti e tre si dileguarono. La beffa per lo Stato fu pungente. Lei, arrestata nel marzo dell'87 alla frontiera svizzera su un treno proveniente dall'Olanda, fu condannata a 20 mesi di carcere (di cui scontò circa la metà). Lui a 6 anni (rimanendo una primula rossa, sospettato per una sequela di sequestri di persona). Nel '91 si è trasferita a Lula. E subito ha incaricato l'avvocato Franco Luigi Satta di trattare con le autorità sulle misure di libertà provvisoria, licenze, permessi che si potevano ottenere se Matteo si costituiva. Si aprirono i preliminari. Ma arrivarono i decreti Martelli, che bloccavano i benefici della legge Gozzini per i responsabili dei sequestri di persona. E la trattativa s'inaridì. Primavera del '92 - siamo nel pieno del sequestro Kassam, nel momento in cui sarebbero state scattate le famose foto nella grotta che forse fu una delle prigioni del bimbo: la forza e il potere di Laura hanno un'altra conferma. Gli 007 italiani la contattano per raggiungere Matteo. Lei li riceve. Li consi¬