Morire di sport e di lavoro; non sparate sugli psicofarmaci

Morire di sport e di lavoro; non sparate sugli psicofarmaci Morire di sport e di lavoro; non sparate sugli psicofarmaci Perché dimenticate Orfeo Pausini? Sono un appassionato della bicicletta, ho 65 anni e vado ancora adesso a fare qualche sgroppata! La disgrazia successa al Tour mi ha sconvolto, però ai nostri telecronisti e al giornale devo fare un rimprovero. Hanno citato tutti i nomi dei corridori morti purtroppo in simili incidenti dal dopoguerra in poi, da Serse Coppi a Rivière a Ravasio, ecc., dimenticando il giovane e modesto Orfeo Pausini, morto per una caduta su una discesa delle Dolomiti, al suo primo Giro d'Italia. In quel Giro d'Italia c'era ancora Coppi, che arrivò decimo nella cronometro Rimini-S. Marino, vinta da Astrua. Io avevo fatto qualche corsa per dilettanti assieme a Orfeo Pausini nel 1950. Poi era passato professionista nei primi Anni 50. Non doveva fare il Giro d'Italia, ma all'ultimo momento nella sua squadra mancò un componente e lui lo sostituì, così morì tragicamente. Er il terzo figlio di una famiglia di sette fratelli e tutti avevano tentato di fare il ciclista, ma solo lui era arrivato al professionismo purtroppo senza fortuna. Adriano Irico, Torino Voglia di vivere e rìschi del mestiere Per chi è stato ad un passo dalla morte - come me - è difficile sopportare la vista di un corridore riverso, immobile, in una chiazza di sangue senza provare sgomento, commozione e rabbia. La morte è sempre ingiusta ma lo è ancora di più con chi sta svolgendo un lavoro in piena salute con la voglia di vivere davanti. La morte di Fabio Casartelli non è diversa da tante altre morti sul lavoro, per incidenti banalissimi e tante volte insulsi. In altri casi agisce però l'im¬ prudenza, la stanchezza, l'incoscienza... Nello sport il rischio è parte o fa parte del mestiere e non è possibile prevenirlo anche se vanno ricercate tutte le soluzioni ed i mezzi per renderlo più sicuro. Il tracciato era di quelli buoni per imprese di uomini come Pantani, Chiappucci, Virenque, non certo per Casartelli che poteva tranquillamente «bearsi» della sua posizione di classifica. La folla non gli avrebbe chiesto niente di più che il suo dovere di semplice gregario e tutto sarebbe trascorso come altre volte, altre tappe, in attesa di un giorno come quello di Barcellona. Anche Ravasio era morto in un Giro d'Italia di qualche anno fa nelle medesime circostanze e anche quella volta cinismo e affari avevano fatto sì che la macchina organizzativa continuasse fino alla fine. Nessuna pietà, solo laconici comunicati e tutto deve proseguire come prima! La vita è appesa dappertutto ad un filo, quella del ciclista, dell'automobilista, ma anche quella di molti lavoratori (senza aprire lo sguardo ai derelitti del mondo o alla tragedia della gente della Bosnia) lo è molto di più. Non bisogna rassegnarsi al caso ma perseguirlo fino a renderlo isolato attraverso azioni di prevenzione che la categoria dei ciclisti può e deve compiere contro gli affari che imperano in tutti gli sport e come tutti i lavoratori chiedere più tutela per sé, per il proprio lavoro. Strade a volte troppo strette, curve pericolose non segnalate, gallerie buie ecc. sono aspetti importanti che vanno pari-pari con la polemica del casco. Io che vado in bicicletta da una vita non l'ho mai messo se non obbligato. E' brutto, antiestetico, scomodo e d'estate tiene caldo. Bisognerebbe andare piano in discesa ma non lo fanno neanche i cicloturisti, immaginarsi chi ha un numero dietro la schiena e ci campa. Nella tragedia di Fabio Casartelli, ricordo tanti altri apprendisti e sconosciuti ciclisti che ancora non avevano assaporato né il successo né la vita e che nella loro breve e giovane esistenza non hanno potuto concepire un figlio dopo aver provato le gioie e l'amore di una donna. E' poco, daccordo, ma per tanti altri la vita è stata ancora più crudele. Antonio Marchi, Trento Quando il farmaco è l'unica ancora Scrivo nella speranza di contribuire al dibattito sui pretesi ef¬ fetti nefasti degli psicofarmaci, molto vivace nelle ultime settimane ma, purtroppo, spesso unilaterale. Mi hanno in particolare colpito alcune lettere, a mio parere potenzialmente pericolose, che rispecchiano posizioni assolutamente soggettive ed emotive, non suffragate da alcun elemento scientifico o, almeno, razionale. A parer mio il lettore ha il diritto di sapere che a tutt'oggi, per il trattamento di innumerevoli individui sofferenti per cause psichiche, non esiste altro che un adeguato trattamento farmacologico, eventualmente supportato da una psicoterapia e da opportuni interventi socio-ambientali, qualora necessari. Gli psicofarmaci, lungi dall'essere quella diabolica invenzione che taluni cercano di dipingere, funzionano perfettamente in un'alta percentuale di casi e costituiscono il frutto della ricerca scientifica di decenni, portata avanti faticosamente nei laboratori di tutto il mondo. L'uomo non dispone di soluzioni magiche per i propri problemi (salvo volersi rifare ad un vero neo-oscurantismo medioevale), ma possiede l'intelligenza, che, sola, può consentire di attenuarli e risolverli, con la paziente applicazione di ogni giorno. Dott. Ernesto Viarengo, Specialista in Psichiatria, Primario Dipartimento Psichiatrico Usi 18Alba-Bra Sesso in vendita? Si paga anche il pane E' una vecchia stupidaggine prevalentemente femminile (mi perdonino le femministe) l'idea secondo cui «la prostituzione è culturalmente inaccettabile in una società civile», come sostiene Inga-Britt Toerner, ministro svedese per le Pari opportunità, che vuole introdurre una legge per vietare il commercio sessuale (una legge che di fatto servirebbe solo a produrre clandestinità, malavita, ricatti, sfruttamento e mafia). Posso replicare con un sano paradosso: secondo me è inaccettabile, in una società civile, che si venda per denaro il pane, che è un bene necessario come il sesso, e che quindi dovrebbe essere disponibile gratis per tutti. Eppure le panetterie esistono, con tanto ài licenza e autorizzazione. Dunque, lasciamo in pace anche le prostitute e i loro clienti. Signora Inga-Britt, ci ripensi! Carlo Molinaro, Torino Ho sedici anni spiegatemi la guerra Vedo ogni giorno, leggo ogni giorno, sento ogni giorno parlare in strada, nei bar, fra amici della questione della Bosnia. Ho soltanto sedici anni e sono frastornato da tutto ciò che sento e vedo. Leggo che sarebbe meglio lasciare che «si scannino fra loro», ma allora mi chiedo perché si è andati a togliere le armi a una delle parti in guerra. Leggo che non dobbiamo intervenire ma aiutare gli esuli, e mi chiedo: siamo già ai conflitti con gli ospiti che abbiamo in casa, dall'Africa come dall'Albania e facciamo finta di poterne gestire dei nuovi? Non sono certo, alla mia età, un guerrafondaio. Però mi domando se non è il caso di far bloccare questa guerra da un intervento duro, breve, radicale: a scuola diciamo «hai capito con chi hai a che fare?». Lo diciamo quando tutti insieme ci si mette d'accordo a contrastare un prepotente. Quando il prepotente sa che gli altri fanno sul serio, si mette calmo. A meno che questi serbi sappiano con chi hanno a che fare e sappiano di poter liberamente infischiarsene. Il mio non è interventismo, ma la coscienza di un ragazzo che pensa che abbiamo guardato questa guerra, non abbiamo fatto nulla quando era ora, abbiamo disarmato uno dei combattenti e abbiamo preso in giro tutti quanti. Ora abbiamo paura che i Serbi vogliano tutta l'ex Jugoslavia. E allora incominciamo a mugugnare. Matteo Fabrisi, Torino