DORIA il mio feudo per Gramsci

LA STAMPA racconti destati | GRANDI EREDI. Giorgio, l'ultimo discendente tra politica, studi, leggende DORIA il mio feudo per Gramsci EGENOVA H, le palanche». Il personaggio che ci sta di fronte, il viso fiero, il respiro J affannoso per l'enfisema che lo ha colto un anno fa, è Giorgio Doria. Le palanche non sono le ricchezze, che pure la sua famiglia ha avuto per secoli; ma l'economia, motrice della storia, alla quale egli ha dedicato metà della sua vita. L'altra metà l'ha dedicata al partito comunista, nel quale il «marchese rosso» milita da oltre quarant'anni. Doria a Genova vuol dire quasi tutto. Dalla stazione, sorta dov'era la porta del Principe (Andrea Doria) alla squadra di calcio in serie A; dal più importante liceo classico a un grosso rione sul Bisagno. Sono Doria decine di palazzi e ville, creati dai vari rami del clan, acquisiti, ceduti, solo in parte oggi rimasti, portando sempre il loro marchio. E' tutta Doria la splendida piazza San Matteo, compresa la chiesa. Ma lui, Giorgio Doria, dopo aver lasciato a 24 anni il palazzo avito, vive qui, in un bell'appartamento di Albaro, l'elegante collina che corre parallela al mare, dove le memorie del casato si mescolano alle sudate carte dei suoi studi. A 65 anni, ha dovuto lasciare l'insegnamento universitario per ragioni di salute. Non ha cessato di frugare nei conti degli antichi genovesi, dai quali trae i suoi libri. L'ultimo volume, che la facoltà di Economia e Commercio gli ha dedicato, raccogliendo vari suoi scritti, si intitola «Nobiltà e investimenti a Genova in età moderna». Il professor Doria scrive della aristocrazia genovese con una singolare capacità di sdoppiamento, tra l'esperienza del protagonista e il distacco dello studioso. Parla di questi personaggi, compresi quelli che portano il suo cognome, come non ne facesse parte. Ma non ne potrebbe parlare se non ne avesse in mano le chiavi. Le palanche sono quelle registrate lì, negli archivi anche familiari, pagamenti, imposte, quote di proprietà; e quelle bisogna esaminare, se si vuole capire la storia di Genova; anzi, la storia tout court. Ci sono otto secoli che parlano, nella sua memoria di storico, non separabile dalla sua vita: fin dalle origini del cognome. Che è d'Oria, come egli precisa, e non d'Auria (da aurum) come da qualche parte si scrive. La nascita è circonfusa da una leggenda, che chiama in causa naturalmente un crociato, reduce dalla Terrasanta. «Era un cavaliere di Narbonne, sbarcò a Genova ammalato e trovò ospitalità presso i Dalla Volta, dove fu curato dalla figlia dei signori, Orietta». La cura andò molto bene, tanto che il cavaliere potè tornare guarito al suo castello. Solo dopo la partenza di lui la troppo premurosa infermiera scoprì di essere incinta. «Quando il bambino nacque non poteva portare il nome del padre né - dati i tempi - quello dei Dalla Volta. Così lo chiamarono il figlio di Orietta, d'Orietta, d'Oria». Leggenda o verità? «Leggenda, leggenda dice l'ultimo discendente del casato -. Ma mi piacerebbe tanto che fosse la verità». Quella Orietta, più che l'armigero, gli ispira evidente simpatia. Leggenda o verità, avverte, tutti i Doria partono di lì. Branca Doria, governatore di Sardegna, che strappò a Dante l'invettiva contro i «genovesi uomini diversi d'ogni costume». Lamba Doria, il vincitore dei veneziani a Curzola, che ha dato origine ai Doria Lamba, ancora oggi presenti in Genova. Soprattutto Andrea Doria, il più grande di tutti («era nato a Oneglia, da un ramo poverissimo»), arbitro della Repubblica genovese nel Cinquecento. Al Doria di oggi piace ricordare il nipote di Andrea Doria, Giovanni Andrea, che comandava una squadra navale a Lepanto. «Fu l'unico cristiano che scappò. Aveva di fronte un ammiraglio calabrese, convertito musulmano, e insieme decisero tacitamente di non arrivare allo scontro. Giovanni Andrea fuggì, l'altro fece solo finta di inseguirlo. Cosi il Doria salvò la sua flotta. Dopo Lepanto, poiché molte navi erano affondate in battaglia, i noli delle sue imbarcazioni aumentarono». Eh, le palanche. In pochi anni Giovanni Andrea Doria aveva messo insieme 50 mila scudi, un quintale e mezzo di oro: quanto gli servì per comperare dai Grimaldi il più bel palazzo della via Nuova (oggi via Garibaldi). Che da lui, e dal suo feudo in Lucania, si chiama da allora Palazzo Tarsi. Prima che il nipote di Andrea mettesse le mani su quella meraviglia architettonica, un Giorgio Doria si era già assicurato il castello con il feudo di Montaldeo, nell'Appennino di Ovada, rilevandolo ancora una volta dai Grimaldi, che non avevano finito di pagarlo. Di padre in figlio, di Giorgio in Ambrogio, il feudo è arrivato fino a Napoleone. «Il castello, con le sue terre, è durato fino a mio padre. E ora è di mio fratello». Così come il palazzo di via Garibaldi 6, dove Giorgio Doria è vissuto fino al 1953, quando ha deciso di entrare nel partito comunista. Come ha potuto, l'erede di tanto blasone, compiere quella svolta? La scelta politica di un Doria, nell'Italia degli Anni 50, fu uno choc per la buona società genovese. «Ma io venivo da una famiglia di tradizioni democratiche. I miei erano antifascisti, mio padre aveva fatto la Resistenza. Mio nonno, Giorgio Doria, era stato assessore nella prima giunta popolare di Genova, composta da liberali di sinistra, radicali e socialisti. E lui, che era radicale - di quelli veri, quelli di Cavallotti - celebrò in Consiglio comunale la rivoluzione russa del 1905. Suo nonno, ancora Giorgio, all'inizio dell'Ottocento era stato coinvolto nei moti mazziniani. Vorrà pur dire qualcosa». Chi ha conosciuto Giorgio Doria negli anni dell'università lo ricorda su posizioni fortemente avverse alla sinistra. Che cosa è avvenuto, a provocare il cambiamento? «E' vero, sono stato liberale, fino al '51. Tutta la mia famiglia lo era. Poi, nei due anni successivi, mi sono convinto che l'idea comunista era quella giusta e nel '53 sono entrato nel pei. Che cosa mi ha disgustato nel partito liberale? Nel 1951, a Roma, si stava varando l'operazione Sturzo e il partito, anche a Genova, era d'accordo per fare l'alleanza col msi. Ci fu una insurrezione, fra i giovani liberali genovesi; quasi tutti se ne andarono». Nel partito comunista il giovane Doria cominciò subito lavorando. «Ero nell'ufficio studi del consiglio di gestione, poi sono passato alla Federterra, poi in Federazione, nella commissione degli enti locali. Dovevamo dare assistenza ai sindaci e agli assessori dei piccoli comuni, per i bilanci, i piani regolatori. C'era da studiare parecchio, su quelle carte». Se ne trovò tante di carte da controllare, anche dopo, quando a palazzo Doria Tursi ci entrò come consigliere nel 1956; fino a essere, per nove anni, capo del gruppo comunista. I Doria sono combattivi, e lui aveva praticato la boxe e il rugby, con buoni risultati, prima di darsi alla politica. Per i democristiani che governavano non fu un oppositore facile. Arrivò a essere vicesindaco, per due anni, nella giunta del socialista Cerofolini. Ma da tempo aveva già cominciato il suo lavoro universitario. «E a quel punto capii che dovevo fare una scelta: o la politica o l'università. Ognuna delle due si prendeva tutto. Alle elezioni successive non mi presentai più». Paradossalmente, lo storico Giorgio Doria è nato proprio sui banchi del Consiglio comunale, dai suggerimenti di un economista, eletto come indipendente nelle liste democristiane. «Mi avvicinò il professor Francesco Bor- landi, professore alla facoltà di Economia da molti anni. Era rimasto colpito dai richiami alla storia economica di Genova che io facevo nei miei discorsi. Mi disse che avrei dovuto studiarla in modo scientifico. Sapeva che io avevo un archivio di famiglia e pensava che lì ci fossero cose interessanti». Infatti c'erano. Giorgio Doria si gettò nelle carte dell'antico feudo familiare, che risalivano al Quattrocento, e scrisse il suo primo libro, su Montaldeo. «Io non mi ero mai laureato, ma con quel saggio vinsi il concorso per la libera docenza, che mi consentiva di insegnare in università». Ha insegnato storia sociale, come associato ordinario, fino all'anno scorso, quando ha dovuto chiedere di essere messo fuori ruolo. Dal partito era venuto via qualche anno prima, nel 1989. «Non potevo accettare la svolta di Occhetto alla Bolognina. Ho scritto una lettera in cui dicevo che era una vergogna; non ero un comunista pentito, e non avrei preso la tessera di una cosa su cui non sapevo nulla. Da allora ho sempre votato Rifondazione; e, dopo la vittoria di Berlusconi e Fini alle elezioni, mi sono iscritto. Ho fatto anche comizi, per quello che mi consentiva la mia salute». Nella sua casa circondata dai ricordi di famiglia, l'insegna con l'aquila esposta discreta su una parete, Giorgio Doria difende la sua coerenza con la linea di allora. «Io non sono mai stato in Urss, anche quando mi invitavano. Non mi è mai andato il partito unico né le cose che facevano là. Però ero comunista, Gramsci è Gramsci. Non mi va questa gente che per trent'anni è stata marxista ed è passata d'improvviso a Clinton e al mercato. Se erano convinti che Marx e Gramsci avessero ragione, non vedo perché dopo la caduta del Muro di Berlino debbano avere torto. Capisco che uno si possa convertire, l'ho fatto anch'io; ma non seguire una corrente». Lui rimane comunista, come imane Doria. Il nome, confessa, non glielo ha mai rinfacciato nessuno, nella parte che ha scelto. E il peso economico della famiglia? «Dal Settecento ha contato sempre meno. Anche se non credo che mio padre fosse alla fame». Dell'antica potenza rimangono importanti vestigia, soprattutto storiche. 11 nome di Giacomo Doria, fratello del bisnonno, campeggia ancora al Museo di scienze naturali, da lui fondato nell'Ottocento. Oggi il figlio di Giorgio Doria, Giuliano, ci lavora come naturalista, il ciclo si salda. E la chiesa di San Matteo? Appartiene ancora alla famiglia? «Non più, dall'ultimo Concordato». Giorgio Doria ricorda il proprio imbarazzo quando dovette partecipare, per dovere dinastico, alla nomina del nuovo parroco, nei primi Anni 60. «Con le mie convinzioni, in chiesa vado solo per accompagnare i visitatori. Ma mia mamma, che era entomologa, si era affezionata a un prete di Montaldeo apicoltore, e mi chiese di partecipare all'assemblea per sostenerlo. Ci trovammo nella canonica di San Matteo, davanti al notaio, scoprii tanti Doria che non avevo mai visto. Erano in miseria, proletari, ferrovieri, tutti comunisti e socialisti. Mi festeggiarono, promisero di aiutarmi nella votazione. Io mi tenni fuori. All'assemblea ci fu un solo intervento, dell'avvocato Francesco Lamba Doria, per sostenere un sacerdote gradito al cardinale Siri. Poi si votò». Il candidato di Siri ebbe un solo voto, l'apicoltore tutti gli altri. Rise tutta Genova. Oggi Giorgio Doria confessa di avere accolto con molto sollievo la nuova disciplina concordataria, che lo esenta da quell'obbligo. Non è il solo retaggio di cui si è liberato. L'archivio storico lo ha ceduto alla facoltà di Economia. Ha tenuto i libri, che sono la sua vita di oggi. Nella casa di Albaro, fra tante antichità, possiamo ancora ammirare quadri di alto lignaggio: Susanna e i vecchioni del Veronese, l'autoritratto del Grechetto, soprattutto uno splendido Paris Bordone, con il matrimonio mistico di Santa Caterina, dai sontuosi colori tizianeschi. «Sono una piccola parte di quelli che aveva mio padre», dice il marchese Doria senza rimpianto. Molti li ha dovuti vendere, per pagare la tassa di successione: «Ma alla Cassa di Risparmio, in modo che restino a Genova». Eh, le palanche. Ha lasciato le ricchezze per militare nel pei e insegnare economia Una dinastia lunga otto secoli nata, forse, dall'amore di un'infermiera per un crociato ferito in Terra Santa palazzo di via Garibaldi 6, dove Giorgio Doria è vissuto fino al 1953, quando ha deciso di entrare nel partito comunista. e Qui accanto, una manifestazione del pei; a destra, Giorgio Doria; sotto, l'antenato Andrea Doria