Ultime grida dalla roccaforte caduta

Ultime grida dalla roccaforte caduta Un messaggio prima del buio: «Abbiamo nelle nostre mani quei traditori dei Caschi blu» Ultime grida dalla roccaforte caduta Tace la linea radio che portava al mondo la voce di Zepa REPORTAGE L'AGONIA DELLA CITTA' PROTETTA SARAJEVO ARTEDI' notte, alle undici e diciotto, la voce di Fadil stava dicendo «Le teniamo, quelle carogne...» quando la radio ha fatto un bzzzz più lungo degii altri e la comunicazione è caduta. «Quelle carogne» non erano i serbi che stavano per entrare in città ma gli ucraini dell'Onu che poche ore prima erano stati presi prigioneri. 1 cosiddetti «scudi umani». Carogne non perché ucraini ma perché inutili, non perché soldati dell'Onu ma in quanto spettatori. Carogne poiché come molti altri reparti di caschi blu al ruolo di guardoni avevano aggiunto da tempo quello di profittatori. Le ultime voci da Zepa, altra zona «protetta» dal mondo a sprofondare sotto il pugno di un'armata di contadini, non raccontano solo di fame, devastazione, disillusione, arretramento. Raccontano di un tradimento consumato a colpi di «deutsche marks», di un chilo di sale offerto a centoventimila lire, di ferini amplessi consumati sui cassoni del camion in cambio di tre scatolette di carne. Di una frattura forse definitiva fra chi soprawiverà a un incubo lungo tre anni e quanto sopravviverà dell'immagine dell'Occidente. Diceva «tutto bene», Fadil, dalla sua radio: una vecchia Kenwood 530, diciotto anni di età, sopravvissuta ad un club cittadino di radioamatori della Jugoslavia socialista. Ogni due giorni dalle nove alle dodici collegamento fisso con «Seho» di Srebrenica - finché «Seho» ha smesso di rispondere - e con «Nada» e «Senad» a Tuzla, «Nela» a Sarajevo. A Spalato, con due ragazzi anch'essi individuati con sigle di fantasia, ma che adesso sono seduti davanti a me con tanto di nome, cognome ed espressioni marcite, Per ognuno di questi giorni Dusko Delin e Dijana Kliko hanno passato ai microfoni venti, ventidue ore consecutive. A Kastel Gomilica, sobborgo di Spalato, il loro «radio club» rappresentava il cordone ombelicale fra Zepa ed il resto del mondo, l'ultimo legame fra quel villaggio affamato, privo da mesi di gas ed energia elettrica, tornato alla vita primitiva, e un mondo che oltre le montagne, a portata di civiltà, ogni tanto parlava di Sarajevo senza tener conto di tutte le altre disperate Sarajevo di questa plaga. «Tutto bene, chi abbiamo oggi?». Un giorno sì e uno no, sulla frequenza di 3,744 megaherz, da tre anni Zepa saltava la sua squallida periferia, sorvolava i blindati serbi per collegarsi con quel che immaginava più in là. Una radio in una vecchia locan da, sulla collina intorno cui si raggruma l'abitato, un'altra radio in Dalmazia e di mezzo un numero di telefono, il 220.394 di Spalato. Praticamente, il mondo. Se qualcuno sapesse cos'è passato attraverso quel telefono, avrebbe per le mani il più grande romanzo contemporaneo. Quel numero è diventato noto dalla Germania al Sud Africa, dall'Austria agli Stati Uniti. Dovunque si trovino de gli emigrati bosniaci. «C'è una chiamata per Fahir Bedic, dalla moglie Amira». Bi sognava prenotarle con dieci giorni d'anticipo, queste chia mate. A Zepa da tre anni anche il telefono era stato ridotto a soprammobile, reperto del passato. Linee tutte morte. Ma dall'estero, chiamando il numero di Spalato e «avvertendo» dieci giorni prima il destinatario, era possibile raggiungere la posta zione radio e far sapere a Dùs seldorf c Cape Town se lì in fondo, a Zepa, buco nero del mondo, una sorella o un marito erano vivi. E soprattutto come «Tutto bene. Beh, insomma...». Da più di un mese la for mula con cui Fadil apriva le co municazioni appariva sempre più stanca. Sapete, fra radioa matori esiste una convenzione che da luoghi come Zepa diventa ferrea: nessun messaggio meno che personale, nessuma comunicazione che, se intercet tata (in quel caso dai serbi) pos sa fornire informazioni di ca ratiere militare. Da mesi, quel che si poteva capire della vita quotidiana della città emergeva dalle con versazioni private, gli sfogh: con un amico o un parente. La domanda che pioveva dal mon do era sempre la stessa: «Come stai?». Bene, abbastanza bene si va avanti. «E come fai?». Me la cavo, i vicini mi aiutano, i bambini non vanno a scuola ma insomma, si vive. «E cos'hai mangiato oggi?». Riso, ho mangiato riso. Riso con margarina... Poi una donna scoppiava a piangere e faceva: «Sempre quello schifoso riso con la margarina», prima che la comunicazione cadesse. «Tutto bene, sempre tutto bene, non c'è più nulla ma va tutto bene...». Certe mattine Fadil pareva lo stralunato speaker di «Good Morning Vietnam». Le interruzioni cominciavano a farsi più frequenti, come se un soldato bosniaco fosse lì, accanto alla radio di Zepa, pronto a bloccare qualsiasi sfogo eccessivo. «Ciao Fe- rida, ce la caviamo... mia moglie? Sai, è morta un mese fa... no, non era ammalata, è che non ce l'ha fatta più. I bambini non l'hanno presa troppo male. Anche perché, sai, non escono più dalla cantina, qui piovono bombe ogni giorno». Tutto bene, ragazzi. A Spalato che si dice? Pure nel codice dei radioamatori - rispettare sempre la privacy altrui - da Spalato qualcuno aveva cominciato a porre a Fadil domande un po' ellittiche, ma in fondo precise. Dimmi, è arrivata la cugina di quello che chiama da Amburgo? «No, non ancora: non dev'essere ancora scesa dal cassone del camion». Quale camion? «Quello degli ucraini, i caschi blu». E che ci fa la ragaz¬ za sul camion? «Lei niente... è che a casa dei suoi si andava secchi». «Andare secchi» in bosniaco significa un po' quello che è per noi l'andare in bianco. In casa della ragazza non c'era da mangiare. E lei allora quando arriva - riprendevano da Spalato - visto che qui abbiamo Amburgo in linea? «Appena avrà portato la carne a casa. L'hanno vista con tre scatolette, una per casco», che significava una per ogni soldato. Tutto bene a Zepa, porco di tutto quello che si può maledire. «E adesso cosa abbiamo: una chiamata da Klagenfurt? Ecco Meha Selimovic, l'uomo che hanno cercato. A proposito, ha fatto i gradini quattro a quattro...». Frase per dire che da quattro giorni non toccava cibo. E un attimo dopo, da Spalato si sentiva Meha Selimovic che alla parente lontana faceva: «Beh, ce la caviamo... senti, tu che stai in Austria hai letto qualcosa? Come su che, ma sulla Bosnia... No, non sui soldati, per carità... NON SUI SOLDATI; AVETE SENTITO?... No, volevo dire, tu credi che qualcuno sappia della nostra situazio...». Crack, via la comunicazione. Fantastica, la vita a Zepa: su, adesso a chi tocca? Chiamata da Zagabria? E' accaduto perfino che un uomo abbia ricevuto la chiamata della moglie, riparata in Croazia, che gli diceva «coraggio, tieni duro, sopravvivi» ed il giorno dopo la donna abbia chiesto un'altra chiamata. Le hanno spiegato che non era possibile, che un sacco di gente era in lista d'attesa. Lei ha detto: «Scusate, ma non mi ero sentita di fargli sapere che intanto ho partorito sua figlia. L'altro ieri dirglielo mi pareva sbagliato, ha già tanti problemi... Adesso vorrei invece che lo sapesse. Non so se tornerà vivo». Erano queste le voci da Zepa, man mano che dopo la caduta di Srebrenica si faceva incombente il sentore della fine. «Hello Spalato, qui tutto bene, benissimo. Oggi fanno centotrentotto giorni che non arriva un rifornimento, ma sono arrivati sette spalloni con danaro per tutta la città. Se i serbi li avessero presi prima avrebbero tolto l'assedio solo per spendere quei milioni a puttane...». Aveva perso tutta l'ironia, il misterioso Fadil (quarantenne, dicono, probabilmente insegnante, forse con dei figli, almeno un tempo). «Qui i parenti di Germania e d'America continuano a mandare danaro, e gli spalloni che riescono a entrare in città ne tengono la metà, e la gente che lo riceve si ritrova piena di pezzi di carta e priva di tutto». Come stai, Fahad? Bene, mia cara, e voi ad Ancona? Non male, la casa è una baracca ma almeno si sta in pace. Come va lì? Aspettiamo, ieri Mirsada ha avuto il danaro e ci siamo fatti il caffè. Il caffè? Sì, i «plavci» glielo hanno venduto a trecento marchi. Quanto? Trecento marchi. «0 Boze». O Boze in bosniaco significa «Mio Dio», plavci significa «gli uomini blu». Tutto bene, a Zepa. Forza ragazzi, con quale parte del mondo dobbiamo parlare? Dai, che intanto Sulejman pedala... Già, accadeva anche questo a Zepa, fondo limaccioso del mondo. Che i protettori Onu vendessero, le donne si vendessero, ciascuno vendesse un pezzerto della propria coscienza mentre in cima alla collina, dov'è la radio, qualcuno pedalava. Sulejman era quello che pistava su un accumulatore a pedali, una sorta di paleolitica «cyclette», per dare energia a «radio mondo». Finché l'energia è venuta meno,. «Sono arrivati qui sotto, nella piazza», ha detto martedì notte, alle undici e diciotto, la voce di Fadil, ormai imbenzinata. «Tutto bene a Zepa, bzzzz, ... eremo ... stavo dicendo resisteremo... perché, vuoi che si faccia la fine dei profughi di Srebrenica? Vuoi che quei porci si facciano anche le nostre donne? Dai, tutto bene a... bzzzz...». Giuseppe Zaccaria «Mia moglie è morta un mese fa e i bimbi sono chiusi in cantina sotto una pioggia di bombe» Grazie a Fadil il radioamatore i musulmani diffondevano il bollettino della resistenza A sinistra il generale Mladic si allena con un bilanciere prima di recarsi dai rappresentanti di Zepa per trattare la resa della città Sotto un'immagine della riunione A destra una donna piange la morte del fratello a Sarajevo

Persone citate: Cape, Dusko, Giuseppe Zaccaria, Mladic, Nela, Riso, Selimovic, Senad