Autori russi in un diario al veleno di Giulietto Chiesa
Autori russi in un diario al veleno A un anno dalla morte escono i «quaderni» di Jurij Naghibin: e non risparmiano nessuno Autori russi in un diario al veleno Evtushenko «sinistro e pericoloso», la Akhmadulina alcolista MOSCA DAL NOSTRO INVIATO E' scandalo, nella derelitta Mosca letteraria, dopo la pubblicazione del «diario maledetto» dello scrittore Jurij Naghibin. L'autore di famosissimi racconti sulla guerra (aveva appena terminato il suo primo e unico romanzo d'amore, «Dafne e Cloe») aveva fama, meritata, di micidiale demolitore, conversatore facondo e implacabile. Ecco perché erano in molti a temere l'uscita del suo diario, di cui tutti conoscevano l'esistenza e pochissimi il contenuto. Destino volle che Jurij Markovic morisse, l'anno scorso, pochi giorni dopo aver consegnato il manoscritto all'editore «Il giardino dei libri». Ma aveva esitato a lungo, chiedendosi se fosse il caso di gettare in pasto al grande pubblico tanti giudizi spietati su molti di coloro che aveva frequentato e amato nella sua vita. Infine decise, anche perché, come scrive nella prefazione egli stesso, non è giusto che «la gente si perdoni tutto, dall'ubriachezza senza frontiere, alla delazione, a ogni sorta di perversioni, mentre pretende dalla letteratura ordine e castità, come in un pensionato di ragazze per bene». E siccome «nella vita non è così», si pubblichi. E non si salva proprio nessuno. A cominciare da Bella Akhmadulina, l'ex amante, che «si disperde come vodka versata su un tavolo di legno. Non fu mai né pulita, né fedele, né capace di sacrificio. Un'educazione stolta, alcolismo, bohème, l'influenza deformante del primo marito, contribuirono a stravolgere la sua personalità, e finiva per mentire non a me ma a se stessa...». E siccome siamo in tema, ecco il giudizio su Evtushenko (che sposò poi Bella Akhmadulina), «occupato solo di sé, non del suo spirito ma dei suoi affari, carriera, successi. Patologicamente ebbro di sé, vanitoso, insaziabile ingordo di gloria. Io! Io! Io! Io! Ti zufola nelle orecchie, coscienza offuscata, dove non c'è né universo, né Dio, né natura, né storia, né le pene dei sofferenti, né la morte, né l'amore, niente. Solo una personalità chiassosa, pervasa solo di sé, noiosa, incapace di riconoscere agli altri il diritto all'esistenza indipendente. E' un uomo sinistro e pericoloso, poiché non ha coscienza del peccato... Non riesce a vedere le bassezze nei lavori di Kataev e rimane sbalordito quando io gli faccio rilevare le delazioni che egli stesso scrive...». E va bene, forse con Evtushenko c'era della ruggine speciale. Ma con Serghei Mikhalkov, padre di Nikita, esimio autore dell'inno sovietico? «Il suo esempio fa inorridire - scrive Naghibin - riesce a annichilire in chi gli sta intorno gli ultimi residui di senso morale, è peggio di Grigorij Rasputin, perfino più cinico di lui». Nemmeno il suo grande amico Bulat Okudzhava trova nelle righe di Naghibin speciale considerazione. «Bulat si è ridotto a una cicca. Una specie di camaleonte. Adesso hanno cominciato a pubblicarlo alla grande e lui viag- già all'estero di continuo, fa affari, la sua fama cresce. E lui, perché non lo mordano, fa finta di essere uno straccione malaticcio. Ecco io non sono mai stato capace di questo». Sembra che Naghibin abbia deciso di non aggiungere una sola riga a quanto scrisse sul suo quaderno segreto dal 1942 al 1987. Qualcosa, invece, sicuramente ha tolto, forse i passaggi più scabrosi o qualche giudizio che, a suo avviso, non aveva retto alla prova del tempo. Ma il libro è una vera miniera, uno squarcio di straordinaria sincerità, velenoso e un po' triste, dell'intelligencija sovietica post-bellica. Si capisce che Naghibin fosse pessimista. Tra quelle righe, scritte nel silenzio della dacia, c'è il preannuncio di un disastro collettivo, politico e morale, che sarebbe sopravvenuto quando a lui e ai suoi amici intellettuali fosse toccata la responsabilità di rendere migliore il Paese in cui erano nati e avevano vissuto. Giudizi impietosi, spesso anche sui suoi incontri stranieri. Fellini è un «impotente timido che imita la passione», Scola «una m... che serve piatti ben decorati». Gli piacque Bertolucci e il suo «Ultimo tango a Parigi», «un capolavoro, e noi, che siamo reazionari in arte, ci siamo trovati dalla stessa parte della barricata, con i conservatori che lo accusa¬ rono di pornografia». Ma non c'è solo veleno. Ci sono splendide note critiche su Pushkin, Tolstoj, ammirazione per Trifonov e Tvardovskij e Marina Cvetaeva. Adesso i colpiti dalla sua prosa reagiranno. La Komsomolskaja Pravda li ha cercati per sentire i loro commenti, ma nessuno ha ancora letto il libro e, in ogni caso, per adesso silenzio. Tace, sdegnoso, Evtushenko, tacciono Bella Akliamdulina e Mikhalkov. L'unico che accetta di commentare è Grigorij Baklanov. Il diario di Naghibin lo aveva letto ben prima che si pubblicasse e, quindi, non è una sorpresa per lui. Era giusto pubblicarlo? «Sì, perché la letteratura ha il diritto di essere sincera, c'è il diritto alla confessione. E' solo lo scrittore che ha il diritto di stabilire dei limiti». Già, ma quali sono i criteri? «Non ce ne sono, a quanto pare. Negli ultimi tempi l'indecenza è diventata moneta corrente in letteratura. Perfino le scrittrici hanno smesso di vergognarsi...». Anche lui, l'autore, avrà avuto le sue pecche e, del resto, non lo nasconde: «Io sono il più gran farabutto di questa terra», «... Non ho mai sofferto veramente, ero ben protetto...», «sono come una scheggia di legno nell'acqua, dove va il vento vado anch'io». Ma questo gli dava titoli aggiuntivi per concedersi privatamente il diritto di far la morale agli altri. Anche a Marina Vlady, allora moglie di Vladimir Visotskij. «Marina Vlady - scrive Naghibin - reclamizzava, da noi, in cucina, le meraviglie della masturbazione femminile rispetto a ogni altro genere di sollazzo. E mentre lei era nel pieno del suo sproloquio arrivò Visotskij, le diede una sberla in faccia e se la portò via». Giulietto Chiesa Jurij Naghibin
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