«Boss e logge, patto di morte»

«Al termine della prima guerra di mafia i clan entrarono nella massoneria per spartirsi il potere» «Al termine della prima guerra di mafia i clan entrarono nella massoneria per spartirsi il potere» «Boss e logge, patto di morie» Ipentiti: cosila 'ndrangheta piegò Reggio REGGIO CALABRIA DAL NOSTRO INVIATO L'intreccio era saldo e i progetti turpi. Ghermire il potere, tutto se possibile e cor qualsiasi mezzo. Tanto il tritolo è di uso corrente fra quelli della 'ndrangheta né scandalizza i «fratelli» affiliati a certe logge coperte e tantomeno gli agenti dei servizi deviati. Mafia, dunque, servizi deviati e destra eversiva: erano gli ingredienti di un cocktail che ha regalato a Reggio un quarto di secolo di «inaudita ferocia e terrificante barbarie». Così per 25 anni, qui in Calabria, con Reggio alla mercè di 17 clan della mafia che carezzava l'utopia di staccare dal resto l'ultimo pezzo dello stivale. E ora sembra più chiaro come qualcuno per i suoi progetti abbia usato anche la rivolta scoppiata in città. E per quel progetto dissennato ci fu chi mise un ordigno sui binari, a Gioia Tauro. La rivolta, dice Giuseppe Scopelliti, presidente del Consiglio regionale, è un fatto che «appartiene a tutto il popolo di Reggio, ma se ci sono prove di coinvolgimenti di mafia, massoneria e servizi segreti deviati è bene che si sappia e che si vada fino in fondo». Il presidente ha 28 anni, un passato come segretario del Fronte della gioventù. E' l'homo novus di An. Con i fatti torbidi di 25 anni fa lui, di certo, non c'entra. «All'epoca della rivolta ero un bambino», sottolinea quasi a spazzar via assurdi dubbi. Ma bambini non erano due militanti dell'msi, finiti nelle pagi- ne che raccontano l'operazione della procura antimafia battezzata «Olimpia». I due, ora parlamentari di An, sono accusati di concorso in strage: Renato Meduri e Natino Aloi, che è stato sottosegretario nel governo Berlusconi. Nei giorni roventi della sommossa facevano parte del cosiddetto comitato d'azione. Ma una cosa è far politica, anche a muso duro, si difendono, altra pagare per mettere delle bombe. Scopelliti non ha dubbi: «Non penso che abbiano potuto compiere errori così gravi. In ogni modo ho fiducia nella magistratura e si scoprirà che Meduri e Aloi sono estranei alle accuse. Certo, c'è sempre stato qualcuno che ha tentato di strumentalizzare la rivolta, senza riuscirci. Che so, forse c'è qualche pentito in cerca di notorietà». E poi, ha detto ancora il più giovane presidente di Consiglio regionale, «l'operazione è essenzialmente antimafiosa, dà fiducia alla città. Ma non basta solo l'impegno della magistratura, occorre quello dei politici». Meduri ha reagito così: «I fatti ipotizzati sono falsi». Ma c'è una lettera di Franco Freda che ringrazierebbe quelli del clan De Stefano per l'appoggio ricevuto al momento della fuga da Catanzaro, durante il processo per la strage di piazza Fontana. Insomma, per i giudici questa è la prova del nove dei legami fra destra e 'ndrangheta. La mafia cambiava pelle, non il volto, che è rimasto quello ributtante di sempre. I capi avevano intuito come fossero indispensabili certi legami con i potenti riuniti in loggia. Sullo sfondo c'è l'inchiesta iniziata da Agostino Cordova, quando era procuratore a Palmi, ma gli uomini della Dda sono andati avanti, hanno trovato riscontri, anche gente che ha deciso di collaborare. E non gente da poco, almeno in seno alla 'ndrangheta. Giacomo Ubaldo Lauro era un boss, non uno qualsiasi. E il 30 maggio 1994 ha raccontato che sì, «al termine della prima guerra di mafia (anni 76-'77) molti capi della 'ndrangheta decisero di entrare in massoneria al fine di partecipare direttamente alla gestione del potere economicopolitico e per poter intervenire direttamente nell'aggiustamento dei processi». E giù con i nomi: Luigi Ursino, i Nirta, i De Stefano, Musolino, Romeo, Mammoliti, Piromalli. Insomma, i capi dei capi. Ed era andato oltre, il collaborante di giustizia Lauro, aveva raccontato pure di una rapina in banca: un colpo con sorpresa. Era il 1976, da una cassetta di sicurezza saltò fuori un'agenda di quelle che servono per appuntare i nomi e, infatti, c'era il lungo elenco degli affiliati a una loggia coperta. Nomi che lo sbalordirono, perché figuravano anche quelli di magistrati e funzionari dello Stato, tutti mescolati, a quelli dei mascalzoni comuni. Il piano degli 'ndranghetisti era così emerso. La frase arcaica dell'organizzazione ormai appariva remota, l'effetto della metamorfosi è questo, dicono gli inquirenti: «La 'ndrangheta rappresenta oggi nel Paese una realtà criminale devastante e complessa, un modello organizzativo sofisticato e futurista». Un'azienda che opera in vari rami: traffico di armi, di droga, soprattutto, con «contiguità imprenditoriali». Senza trascurare i tradizionali campi d'intervento: estorsioni, rapine. I cosiddetti «baroni» della 'ndrangheta, se possibile, sono a oggi ancora più pericolosi. Un nome per tutti, indicato e sottolineato dagli uomini della Dda: Giuseppe Piromalli, il patriarca. «Pur condannato all'ergastolo e sottoposto alle restrizioni previste dall'art. 41 bis può continuare a gestire (munito perfino di segretario) dall'interno del carcere di Palmi gli interessi criminali dell'imponente organizzazione malavitosa calabrese». Vincenzo lessandoti «Il patriarca Piromalli continua a gestire nel carcere di Palmi gli interessi criminali della potente organizzazione» Il Presidente della Regione «Quella rivolta appartiene a tutta la città» A sinistra l'ex ministro Altero Matteoli: «Nella relazione dell'Antimafia non c'è traccia dei collegamenti tra criminalità e uomini politici» A sinistra la rivolta di Reggio. Sopra Franco Freda e Giuseppe Piromalli