Nel «palazzo dei veleni» c'è un nemico con la toga

gassasse SS==^=S RETROSCENA TEMPESTA SUL TRIBUNALE Nel «palazzo dei veleni» c'è un nemico con la toga REGGIO CALABRIA DAL NOSTRO INVIATO La palude è insolita perché si tratta di un vecchio e cadente palazzo dal colore indefinito, un po' cangiante, con ia facciata impreziosita da quattro colonne ioniche. Tredici gradini per arrivare all'ingresso, sei alpini sorvegliano chi entra e chi esce. Sono del battaglione Susa di Pinerolo, fanno parte dell'operazione Riace. Devono tener lontano il nemico, gli uomini della 'ndrangheta. Eppure, i nemici sono già dentro, dicono. E combattono guerre intestine, faide sanguinose. E' una situazione di disastro permanente ed è un vero miracolo, in queste condizioni, che la legge faccia un po' di strada. L'altro giorno hanno arrestato un presidente di corte d'Assise, mica uno qualunque, e l'accusa è di quelle di essersi venduto alla 'ndrangheta. Sul dottor Giacomo Foti hanno indagato i magistrati di Messina, si dicono certi del fatto loro. Sia come sia, per la legge è una disfatta. Ma quasi a voler segnare un punto positivo, dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio ieri hanno dichiarato conclusa un'indagine colossale che ha coinvolto oltre 500 persone. Il fatto è che un giudice in manette colpisce di più di un esercito di mascalzoni ghermiti dalla giustizia. Perché, si sottolinea, un giudice che commette un reato non è un cittadino che sbaglia, è uno che tradisce. E non lo fa certo per motivi nobili, ma per il potere o forse soltanto per denaro. L'aspetto di Foti era per la verità assai più modesto, lui non era certo uno che ostentava. «Da ragazzino fra gli Anni 50 e 60 frequentava già il tribunale», ricorda il dottor Guido Marino, allora giudice di tribunale. Il ragazzino Foti era di casa nei corridoi della palude-palazzo perché suo padre, Alfredo, era uno stimato presidente di sezione. A Reggio Marino è tornato nel 1985, presidente della corte d'appello. «Foti allora era giudice di sorveglianza, adesso si dice che i processi che faceva non potevano che esser condizionati, ma non c'è un dato sicuro che dimostri come lui abbia potuto giostrarli. D'altra parte non rimane che affidarsi alle accuse formali...». Ma quanti ce ne sono, di Foti, nella palude-palazzo? «Che cosa devo dire?», risponde allargando le braccia Bruno Siclari, procuratore nazionale antimafia. E' corso qui a Reggio per la grande indagine e parlare dei guasti nel palazzo proprio non gli va. «No, perché non spettano a me valutazioni del genere. Io vedo che i miei lavorano con efficacia, questo mi basta». Quanti Foti, dottor Boemi? Salvatore Boemi è il procuratore distrettuale della Calabria. «Questa è una domanda... No, non rispondo, per rispetto al collega e anche per rispetto a chi indaga sul collega. Perché questo è l'aspetto più devastante di una situazione del genere, che può capitare a chiunque dover indagare su un collega. Ecco, piuttosto vorrei fare questa domanda: non quanti siano i magistrati, ma quanti siano i Ponzi Pilati, perché son loro che fanno più male». Uno arrestato, cinque con grane al Consiglio superiore della magistratura, e non personaggi di se¬ condo piano, ma il procuratore della Repubblica, per esempio, per il quale esiste un procedimento perché lo si ritiene incompatibile con l'ambiente. Giuliano Gaeta sembra un uomo d'altri tempi, porta spesse lenti, veste di grigio, cravatta a dispetto del caldo infernale. Si vede che ha dimestichezza con il potere. «Quello di Foti? Eh, sì! Sono fatti che turbano un po' tutti». Ma lei, procuratore, non ha problemi con il Consiglio superiore della magistratura? «Un articolo 2, quello delle guarentigie, una cosa di altri tempi. Arrivederci». «Non dò giudizi su un collega», dice subito Enzo Macrì. Anche lui ha avuto guai, e più d'uno. Anche lui proviene da una famiglia di magistrati: suo fratello, Carlo, è giudice, suo cognato, Felice Saverio Marmino, è membro del Csm. Al procuratore generale presso la Cassazione, il Guardasigilli, Filippo Mancuso, ha inviato un documento nel quale sottolinea come Macrì sia «incorso in reiterate violazioni dei doveri di correttezza, lealtà e riserbo». Il nocciolo della questione è la privatissima guerra che il sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia avrebbe condotto contro Giuseppe Viola, che fu presidente della corte d'Appello a Reggio e oggi è in Cassazione. Anche di Viola avrebbe dovuto occuparsi il Csm, ma lui anticipò tutti e chiese il trasferimento. E c'è un altro documento, sempre del ministro Mancuso al procuratore generale presso la Cassazione che propone un'azione disciplinare e la sospensione cautelare dalla funzione per Mannino. Ma da lustri la nebbia ristagna sulla palude. In un documento di Giovanni Galloni si parla anche delle private guerre fra i giudici. A chi li accusava di interessi «non limpidi» il pre- sidente della corto d'appello Viola e l'avvocato generale, Giovanni Monterà, sottolinea Galloni, «hanno reagito vivacemente». Non soltanto: «Il presidente Viola ha pure denunciato un attacco di falsi pentiti nei suoi confronti, ordito o preordinato dal medesimo Macrì. Il dottor Macrì nega di aver posto in essere comportamenti scorretti contro i colleghi e ribadisce le perplessità su alcuni aspetti dei loro legami con esponenti politici e imprenditoriali del luogo». In conclusione, nella palude-palazzo, la prima vittima è proprio la giustizia. Celebrare un processo di malia apparo un evento straordinario. Vincenzo lessandoli In un rapporto del '94 si parlava di guerre tra i magistrati «L'arresto di Foti? E' devastante dover indagare su un collega» Giacomo Foti, il presidente di corte d'assise arrestato

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