Da Serse Coppi a Ravasio Così di bicicletta si muore
Da Serse Coppi a Ravasio Così di bicicletta si muore IL CASO I LUTTI IN CORSA Da Serse Coppi a Ravasio Così di bicicletta si muore IN morte di Fabio Casartelli piovono, grandinano, fioccano i molti e soliti interrogativi sul rapporto fra ciclismo e morte, un rapporto talora terribilmente intenso: e non parliamo soltanto di corse, ma di ciclisti del traffico travolti dalle automobili, di cicloturisti uccisi da una caduta, di burroni che aspettano gli incauti o gli sfortunai. Il ciclismo agonistico fornisce i riscontri vistosi, di vetrina. Il Giro d'Italia degli ultimi anni ha collezionato ad esempio due morti abbastanza vicini, lo spagnolo Santiseban vent'anni fa, Emilio Ravasio nove anni fa, nel 1986, entrambi in Sicilia. Ravasio si era rialzato dopo avere picchiato la testa per terra, era ripartito e arrivato al traguardo, era andato all'albergo, si era sentito male, addio. In quelle occasioni venne dolorosamente facile ricordare il Giro del Piemonte del 1951, Serse Coppi che cadde già dentro Torino, arrivò pedalando al moto- velodromo, andò in albergo, mal di testa, clinica, niente da fare. O andando meno indietro, al caso di Sandro Fantini detto il furetto d'Abruzzo, velocista, la ruota nelle rotaie all'arrivo cittadino di un Giro di Germania, caduto e morto anche lui, la testa rotta. Si muore ogni tanto di ciclismo, o se non si muore si può rimanere paralizzati, come Roger Rivière che al Tour 1960 in discesa rischiò dietro a Gastone Nencini grande folle e uscì di strada, si incrinò la spina dorsale, lasciò il Tour all'italiano e andò verso una morte precoce, tra sofferenze di corpo e sbandate di vita. E' il ciclismo sport pericoloso? Si. Lo sanno per primi i ciclisti, anche se la straordinaria maneggevolezza del loro trabiccolo, la straordinaria agilità del loro corpo dai riflessi di gatto, la straordinaria loro fede nella sorte amica li portano se non all'incoscienza perlomeno all'atarassica serenità. Lo sa anche chi va in bicicletta nel traffico cittadino, fra il motorismo fitto e protervo. Serve il casco, per ridurre il rapporto fra bicicletta e morte. Ma hanno provato, qualche anno fa, a imporlo in tutte le corse ai ciclisti professionisti, sulla scorta dell'obbligo clie vige per loro in Belgio. Lo hanno combattuto, rifiutato. Il caldo, il sudore, i ronzii, le cefalee, tutte attenuanti alla leggerezza, diciamo pure all'incoscienza. Più facile per i motociclisti, possono portare caschi pesanti pieni di tunnel per l'aria rigenerante. In uno sport che chiede fatica sporca, ferina, che espone a tutte le insidie della strada e del clima, che umilia l'uomo per esaltarlo in seconda ma lontana battuta, i ciclisti professionisti hanno chiesto e ottenuto di poter lavorare assumendo certi rischi: ma con l'aria che rinfresca la testa, oltre a pulire la faccia. Non è il caso di giustificarli, ma bisogna fare un certo sforzo e capirli. In rapporto a quanto o a come si podala, ai rischi elio si corrono, si muore relativamente poco, anche se una morte «vale» un miliardo di morti. Ieri molti al Tour sapevano, pochi hanno chiesto il casco Moser il patriarca li scusa, ne riferiamo a parte. Il casco, ancorché aerodinamico, è una tortura: a meno di usare quello a listerelle, di cuoio, che però serve a ben poco. La bicicletta convive con la morte, e non solo quando c'è l'esasperazione agonistica. I nostri due ci-
Persone citate: Emilio Ravasio, Fabio Casartelli, Gastone Nencini, Moser, Ravasio, Roger Rivière, Sandro Fantini, Serse Coppi
Luoghi citati: Abruzzo, Belgio, Germania, Italia, Piemonte, Sicilia, Torino
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