Toma, il grande mistero dell'Ottocento italiano di Marco Vallora

Toma, il grande mistero dell'Ottocento italiano A Spoleto le opere dell'artista: genio o «decoratore borghese»? Toma, il grande mistero dell'Ottocento italiano rol SPOLETO ili UTTE le volte la si vorreba be dimenticare, la frase maligna e feroce di Longhi, j; I «Buonanotte, signor Fattori», con cui maramaldescamente liquidava il nostro piccolo Ottocento, imparagonabile con le audacie sperimentali degli impressionismi europei. Oggi è ormai assodato che questo gioco sleale dei paragoni (sleale chissà perché, eppure se lo si gioca è la fine, per la nostra povera Italietta...) non è né generoso né produttivo riproporlo. Eppure, quando si esce da una pur meritoria retrospettiva come questa di Gioacchino Toma, a Palazzo Racani Aironi, sino al 30 luglio (poi a Napoli), questa mostra voluta da Bruno Mantura e Nicola Spinosa, un certo imbarazzante retrogusto d'insoddisfazione onestamente lo si avverte, e quella crudele frecciata di Longhi torna a disturbare i nostri pensieri. Che pure vorrebbero essere di adesione e di sincera simpatia per questo curioso personaggio di orfano ribelle e tiepido rivoluzionario inviso ai borbonici, che avrebbe passato la sua esistenza (1836-91) a riscattare la scuola, come insegnante d'ornato e a moltiplicare scene pietistiche di orfanelle cieche e ricamatrici mute. Ricordate la Pomme inespressiva e docile de La merlettaia di Gorretta? Sarebbe stata una protagonista esemplare, per questo romancero vizzo e spoglio del «vignettista» Toma: e non lo diciamo con spregio. Ma per quanto nei saggi del catalogo Electa Napoli, Mantura stesso ed Elena di Majo, Mariaserena Mormone e Luisa Martorelli tentino di convincerci della sua grandezza assoluta, anche contro l'opinione di firme autorevoli della cultura partenopea, come Raffaello Causa e Paolo Ricci effettivamente è problematico per noi superare quel sapore dolciastro ed un poco sparagnino, quel sapore spoglio e miserabilista di rosolio da sacrestia, di minestrina da collegio. Non è tanto una diminuzione, quanto una caratteristica: e forse, più ancora di quei deboli paesaggi del Teduccio o del Vesuvio nel variare delle ore (un delitto pensare a Me • net, anche se la Picone Petrusa arrischia un parallelo con Degas... Dio ne scampi! avrebbe urlato Imbriani, che pure accusava Toma di «sciupare e prostituire» il proprio ingegno in questa didattica ornamentale), soprattutto di certo courbettismo minimo di non poche marine spoglie di ogni paesaggismo partenopeo; forse ci piacciono oggi maggiormente certi interni rarefatti e ghiacciati {Madre che insegna a leggere, Messa in casa, L'orfana, che si accosta al canterano come al suo privato altare di luttuosa nostalgia), insomma certi quadretti d'interni e d'arredamento sentimentale che potrebbero benissimo, anonimi, fondersi nella tappezzeria minuziosa di casa Praz. «Bambocciate», non a caso le chiamava Toma, che era il primo a rilevare la modestia affettuosa di molte sue inquadrature (che avrebbero poi fatto scuola ad un certo tipo di cinema calligrafico e «macchiaiuo¬ lo», alla Soldati o alla Castellani, da Piccolo mondo antico sino a Senso e al Gattopardo di Visconti); era Toma stesso il primo a confessare certe sue lacune e insoddisfazioni, ((tutto il vuoto che era in me per mancanza di istudi e l'ingegno mio limitato», consapevolezza che lo spinge sin sul limitare del suicidio, per il fallimento di un quadro. Non sono tanto le tele di impianto storico-morellesche, dunque, quelle che ci attraggono, e che suscitarono l'entusiasmo di Meissonier, o le civetterie veristiche all'Induno o alla Mose Bianchi, tipo L'onomastico della maestra, ma certe micragnosità bianco su bianco, certi studi di nuvole alla Valenciennes come il bellissimo Immagini fugaci, che molto anticipa della Scuola Romana, o quel Caillebotte nostrano dei divertenti Sommozzatori, che poi sono dei rudi pècheurs di conchiglie. Intriga anche quell'ultimo periodo di nnn-finito, con una grafia sommaria e serpentinata, che fa pensare a temi di Rosai (tatuaggi di camorristi e interni bui) trascritti da un De Pisis dell'800. E ci piace ricordare che Toma amava dipingere con un'altra tela accanto, in cui appuntava soluzioni cromatiche sperimentali o ardimenti grafici, che non osava lasciar fiorire sulla tela ufficiale. Marco Vallora Per alcuni critici ricorda Degas per altri sciupò e prostituì la sua arte A sinistra: un olio su tela del 1863. A destra, «Autoritratto» di Toma databile attorno al 1880

Luoghi citati: Napoli, Valenciennes