Pisa, sfida all'arte di Dio

Sette secoli di capolavori che segnarono la storia della città Sette secoli di capolavori che segnarono la storia della città Pisa, sfida all'arte di Dio In Duomo l'orgoglio ghibellino PISA I ' OME e più di altri sacri I monumenti fondamentali I i per sviluppi e forme della AdJ storia dell'arte, i legami fra il Duomo e la comunità pisana furono sempre strettissimi, per cui iniziative artistiche, storia civile, alterne vicende di potere si intrecciano nel tempo. Nella colossale abside decorata a partire dal 1302 dal grande mosaico a cui lavorò anche il vecchio Cimabue, l'orgoglio ghibellino imperiale della città giunse al massimo dell'esaltazione con il mausoleo funebre di Arrigo VII di Lussemburgo, iniziato nel 1315 da Tino di Camaino. Fu il momento delle glorie scultoree, liberamente disposte fra l'aitar maggiore e la zona presbiteriale: Giovanni Pisano, poi Nino Pisano. Il Quattrocento «normalizza»: la parte inferiore dell'abside, mediante una transenna, viene ridotta a sacrestia e alla fine del secolo il sepolcro imperiale viene trasferito nella cappella dell'Incoronata, per poi finire ai primi dell'800 in Camposanto. Siamo anche alla fine della libertà pisana: al posto del mausoleo imperiale nello spazio della tribuna comincia, con la commissione nel 1531 della grande tavola del Sacrificio di Noè al fiorentino Sogliani, austero e robusto omaggio classico al maestro Andrea del Sarto, la vicenda della trasformazione «fiorentina» della tribuna in «galleria regia», come sarà definita da Galileo. Un altro nome illustre troviamo alle origini della vicenda: commissario fiorentino a Pisa è in quel momento il Guicciardini. L'attenta analisi di Roberto Ciardi nel catalogo Electa dei dipinti della tribuna, con storie in grande prevalenza dell'Antico Testamento, ne sottolinea l'incrocio fra simbologie didascaliche che preludono e accompagnano lo spirito e i dettami del Concilio tridentino e significati politicoideologici di esortazione e di monito all'obbedienza all'autorità: dietro al popolo ebraico si legge quello pisano e l'assolutismo mediceo si tinge di diritto divino. Fra 1531 e 1626, con uno spirito e una vocazione artistica «moderni», caratterizzati da un inestricabile intreccio fra sacro e profano, in cui l'arte della comunità diventa arte della sovranità, lontanissima dalla concezione d'origine che aveva presieduto alla nascita del Duomo e del complesso del Campo, la tribuna divenne una vera e propria «galleria» granducale, che chiamò a raccolta artisti maggiori e minori da Firenze, da Siena, da Lucca, e solo due pisani di buon livello, Aurelio Lomi e Orazio Riminaldi. Per poco meno di un secolo si susseguirono 27 tele e tavole fra maggiori e minori, compresi i quattro magici Evangelisti del Beccafumi originariamente posti al di fuori della transenna. Vi si aggiunsero le quattro poderose e sontuose Virtù del Lomi collocate, nella risistemazione dopo l'incendio del 1595, intorno ai seggi simbolici dell'Arciduca e dell'Arcivescovo (oggi nella chiesa di San Michele in Borgo) e le cinque tavole di polittico di Andrea del Sarto che assai presto le sostituirono. La giustificazione avanzata dall'operaio del Duomo Curzio Ceuli, regista dell'ultima fase seicentesca della sistemazione della tribuna, per sostituire nel 1617 le Virtù del Lomi con le tavole di Andrea del Sarto, dipinte un secolo prima per la chiesa di Sant'Agnese, è tipica dello spirito profano e quasi museale della «galleria»: nessuna ragione simbolica, ma il semplice fatto che «nel duomo non ci era pitture d'Andrea del Sarto, pittore così famoso». Questo spirito emerge ovviamente con la massima evidenza nella presentazione dei dipinti fino all'8 ottobre, dopo anni di restauri e prima della ricollocazione, nel Museo delle Sinopie. Ne risultano un sontuoso e poderoso spettacolo pittorico e una lezione mirabilmente contraddittoria di storia dell'arte in Toscana fra due secoli, con in mezzo la gran discriminante del Concilio tridentino. Una contraddizione, ma non radicale emerge fin dalle origini: fra la Maniera nobile e classica delle tavole del Sarto, i cui luminosi cangiantismi non nascondono, anzi esaltano le ombrose dolcezze leonardesche e raffaellesche, e l'oltranza visionaria dei capolavori del Beccafumi, un Fussli o un Girodet in anticipo di secoli. Classicità e leonardismo rispuntano, grevi e metallici, nordici, nella Deposizione e nel Sacrificio di Isacco del vecchio Sodoma, mentre già svoltato il secolo, ultimo elegantissimo erede della libertà della Maniera appare Ventura Salimbeni nella Caduta della manna. Nella fase seicentesca, l'arte «riformata» in versione toscana richiede l'opposto: sodezza e realtà. Ottimamente vi rispondono l'Elia e l'angelo del Ma netti, il Daniele e Abacuc del Bilivert. Uno squarcio luminoso di nuova classicità bolognese-romana è ostentato dal Sansone di Orazio Riminaldi, 1620, fra Lanfranco e Reni. Marco Rosei «San Giovanni evangelista», olio su tavola di Domenico di Pace detto Beccafumi

Luoghi citati: Camposanto, Firenze, Lucca, Lussemburgo, Ome, Pisa, Siena, Toscana