Vite dorate di killer in cella di Francesco La Licata

Vite dorate di killer in cella L'ALTRO REGNO DI COSA NOSTRA Vite dorate di killer in cella Champagne e feste nelle carceri «grand hotel» Q UANDO accade sgrazia» e per il ROMA la «diboss si schiudono i cancelli del carcere, si dice che il malcapitato ricorra ad una metafora autoconsolatoria che suona più o meno così: «L'uomo d'onore è nato per soffrire». Con ciò volendo sottolineare la difficoltà della prova che attende il mafioso, passato repentinamente dallo stato di grazia di «nomediddio» a quello più modesto di detenuto. Anzi, specialmente nel comune sentire del «picciotto» siciliano, è proprio la prova del carcere che metterà in luce doti e limiti dei diversi personaggi con aspirazioni di carriera dentro Cosa Nostra. Dal momento in cui varchi la soglia dell'«albergo» - per dirla con l'umorismo degli ospiti dell'Ucciardone - comincia l'esame. Tommaso Buscetta l'ha spiegato bene cosa succede: «Vieni osservalo, scrutato, senza mai essere perso di vista. Annotano tutto: se sei nervoso, se sei triste, se mangi, se digiuni, se ridi a sproposito e, soprattutto, se dai segni di cedimento con la testa». Già, se - per esempio - in preda allo sconforto ti lasci andare a tentativi di autolesionismo o, peggio, di suicidio, sei finito. Come uomo e come mafioso. Può far carriera uno che alle prime «sofferenze carcerarie» non ci sta più col cervello? Potete scommetterci: uno così è all'anticamera del pentimento e quindi altro che ingresso nella «cupola». E' già fortunato se riesce a salvare la pelle. Ecco perché le mafie - tutte, non solo Cosa Nostra - danno una così grande importanza al «problema carcere». Nel senso che, da che mondo è mondo, i boss hanno sempre «provveduto» a rendere quantomeno sopportabile il soggiorno in cella, oltre che - naturalmente - il più breve possibile. Ed ecco perché storicamente sono i giudici di sorveglianza, i direttori dei penitenziari e le guardie carcerarie - prima ancora dei pubblici ministeri e delle eccellenze giudicanti - i più appetibili tra i servitori dello Stato da «avvicinare». Basta sfogliare le carte degli allegati alla prima relazione della Commissione antimafia per capire l'importanza, per un boss, di aver amici in grado di farti cambiare carcere o farti ottenere permessi, semilibertà o addirittura scarcerazioni per «buona condotta». In quei documenti - prima ancora del racconto di pentiti e dissociati c'era già chiaramente espresso il cammino da percorrere verso il «carcere dal volto umano». Avviene (almeno fino a poco tempo fa era così) che il politico riceve la «segnalazione» dal boss che magari ha avuto qualche merito nel trovare i voti in quel collegio elettorale. Se «l'onorevole» ha incarichi di governo, fa tutto da solo. Altrimenti deve «disturbare» altri, sempre della zona, naturalmente. Insomma, la «questione» deve arrivare almeno ad un sottosegretario che, a sua volta, invia una «letterina» al giudice competen'e caldeggiando il trasferimento di tal detenuto oppure almeno una «licenza», o - meglio - il riconoscimento di qualche male oscuro che possa sistemare il «bravo e sfortunato ragazzo» in qualche infermeria. Per anni è andata così. Poi an- che peggio, perché dal '70 in poi mafia, camorra e n'drangheta con la corruzione - si sono appropriate delle carceri, trasformandole in confortevolissimi Grand Hotel. Sono entrati nella mitologia di Cosa Nostra le «facilitazioni» che si ottenevano all'Ucciardone. Il vecchio maniero borbonico, buio, umido, sovraffollato, un vero inferno per i detenuti comuni, si trasformava pei' i mafiosi. Proprio come nel canto popolare che paragona la detenzione ad una «villeggiatura». E' passata alla storia dell'Ucciardone la cena per il compleanno di «Totò l'Americano»: spaghetti ai flutti di mare, aragosta, e champagne fatto arrivare in carcere - per aggirare il divieto - nei contenitori del petrolio. Le donne? Entravano ai tempi della morte del bandito Pisciotta, avvelenato in cella con lo storico «caffè amaro». Poi basta. In compenso, però, si ha notizia di «spogliarelli» organizzati davanti a Fuorni, carcere di Salerno, in modo che i boss del clan Alfieri - così ha raccontato il pentito Pasquale Galasso - potessero guardare e godere. Magari te¬ lefonando alle amiche. Come? Coi cellulari che gli agenti di custodia (16 incriminati) fingevano di non vedere nelle celle dei vari Maiale, Pecoraro, Serra e compagnia. Trattamento di favore anche per Raffaele Cutolo, nel supercarcere di Ascoli Piceno. Lì «don Rafaè» disponeva di appartamento con segretario. Ma è comprensibile, perbacco: quello era il periodo in cui andavano a trovarlo agenti, 007 e spioni impegnati nello indagini sul sequestro di Ciro Cirillo, assessore partenopeo, oltre che intimo di Antonino Gava. Tutto a posto, dunque. A posto? Si, qualche osservatore, di quelli particolarmente permissivi, potrebbe liquidare l'argomento ricorrendo al manto caritatevole della «corruzione fisiologica». Già, tanto «fisiologica» da tramutare in «colpa» la scelta dell'onestà fatta da altri. Ne sanno qualcosa Attilio Bonincontro, Calogero Di Bona e Antonino Caputo, sottufficiali degli agenti di custodia (i primi due a Palermo, l'altro a Salerno) assassinati perché «non graditi». Francesco La Licata Nel carcere di Ascoli Piceno Raffaele Cutolo disponeva di un appartamento L'Ucciardone e a sinistra l'ex direttore del carcere di Reggio Calabria Raffaele Barcella

Luoghi citati: Ascoli Piceno, Palermo, Reggio Calabria, Salerno