A Tuzla, voci dall'Apocalisse

A Tuzla, voci dall'Apocalisse A Tuzla, voci dall'Apocalisse Un fiume di profughi raccontili 'orrore REPORTAGI FUGA Lm TUZLA m AUTISTA del furgone impreca, frena bloccando l'intera colonna, poi segnala agli altri di arretrare il più velocemente possibile. A Zivinice, da dietro una curva, improvvisamente ha visto venirgli incontro gli spettri. Sono tanti, una legione, un'orda medievale. Sono sporchi, sudati, urlano, singhiozzano, imprecano, tendono le mani, lanciano sassi, agitano bastoni. Paiono emersi dalla notte dei secoli per piombare in faccia alla civiltà mostrandole come sia stata annientata: questa è la gente di Srebrenica, un esercito di «zombies» uscito dal mondo del nulla solo per piombare in una terra di nessuno. Erano italiani, gli aiuti che l'autista di quel furgone stava trasportando. Per una volta, potremmo gonfiare il petto sapendo che il primo convoglio umanitario giunto a Tuzla era della nostra Cooperazione ed in sei camion portava olio, zucchero, kits chirurgici e minestrone liofilizzato. Ma forse è più importante far sapere che quel convoglio ha dovuto attendere molte ore, ha cambiato percorso. Per non imbattersi in nuove falangi di profughi affamati si è inerpicato lungo una strada di montagna e attraverso villaggi che si chiamano Ribnica e Banovici ha finalmente visto Tuzla intorno alle tre di pomeriggio. In quel momento, la lunga agonia dei profughi durava esattamente da 38 mesi e due giorni. Trentotto mesi di fame e terrore, due giorni di uccisioni, stupri, violenze di ogni tipo, deportazione su camion e pullman fino a Luka, limite del territorio controllato dai serbi. E poi, interminabili chilometri a piedi. Sono già ventisettemila, i fuggitivi, forse di più. Ammassati in quattordici, quindicimila intorno all'aeroporto di Tuzla, coi caschi blu olandesi che dopo averli aiutati adesso tentano di bloccarli dietro barriere di filo spinato. Accampati sulle strade di Kladanj, distesi ai bordi delle strade, nascosti nei boschi, ammassati in tunnel che paiono latrine. Per le prossime ore se ne aspettano almeno altrettanti: i serbi continuano gli attacchi, adesso tocca a Zepa e la «pulizia etnica» sarà ancora una volta inflessibile, feroce. I jet della Nato intanto continuano a sorvolare. Sorvolano il teatro della nuova aggressione come questa sorta di riserva indiana dove vecchie coi pantaloni a sbuffo ansimano stese sull'asfalto, bambini seminudi piangono abbandonati a se stessi e qualche giovane donna sputa verso il cielo. Non c'ero, ai tempi delle deportazioni dal ghetto di Varsavia, ma penso che le cose dovessero svolgersi più o meno così. Con le stesse scene, le stesse facce, le stesse urla, gli stessi odori dev'essersi compiuta ogni migrazione forzata nella storia, dinanzi alle orde di Attila come alle divisioni di Kesserling, agli zulù di Shaka come ai khmer di Poi Pot. Solo che accadeva lontano, nello spazio o nel tempo: qua invece la gente delle riserve, gli indiani del Duemila li senti, li tocchi, li vedi assaltare i bianchi fuoristrada delle Nazioni Unite come termiti impazzite alla ricerca di un pezzo di pane, un telo per coprirsi, un sorso d'acqua. L'acqua. Cosa stia provocando qui la sua mancanza, quanti disastri, malattie, rischi di epidemie stia seminando la fuga disperata degli «epurati» dai teorici della razza serba è cosa inimmaginabile. A Kladanj, un tempo stazione termale (era famosa per la «muska voda»: ac¬ qua miracolosa, dicevano, per gli attributi maschili), una giovane volontaria del «Merhamet», la Caritas islamica, me l'ha spiegato in due parole. «Il resto del mondo usa la carta igienica, questa invece in gran parte è gente che si era rifugiata a Srebrenica dai villaggi di montagna. Contadini. E per loro la norma islamica che impone di lavarsi dopo ogni bisogno corporale è ultimativa». Se potessero raggiungere le terme, i profughi sarebbero salvi. Ma così non può essere: l'Onu, che dovrebbe occuparsi di loro, non ce la fa, le truppe bosniache possono solo tentare di arginare il flusso. Immaginate dunque con quale acqua possono mai lavarsi, immaginate quante volte la stessa acqua può essere usata, e cosa si può diffondere. Le prime stime bosniache (a Tuzla c'è un ufficio pomposamente definito «ministero per l'emigrazione») dicono che oltre alla vecchiaia ed alla denutrizione la principale malattia dei fuggitivi è la dissenteria. Nello stesso ufficio mi hanno fatto vedere un messaggio, spedito dal responsabile medico del contingente olandese a tutti gli uffici dell'Onu, che comincia così: «Urgent - urgent - urgent urgent - urgent». E' urgente trovare del cibo. Urgente recuperare acqua e me¬ dicinali. Sarebbe urgente riaprire l'aeroporto, bloccato da mesi proprio come quello di Sarajevo, per consentire almeno un più celere invio di aiuti, ma le trattative come al solito ristagnano. Nel flusso ininterrotto dei rifugiati già 56 persone sono morte per postumi di ferite o collassi, infarti, denutrizione. Lungo le curve che da Kladanj conducono a Tuzla vedi centinaia di vecchi e di bambini che boccheggiano ai bordi della strada, sovrastati da un caldo schifoso, e guardano alla tua auto con un'espressione d'odio. C'è anche chi si è ucciso. Una ragazza si è impiccata nel bosco che dalla collina di Husino si affaccia su Tuzla, Tuzla la disperata. Non si sa come si chiamasse: era giovane, sui vent'anni. L'hanno trovata appesa a un albero, aveva trasformato una coperta in cappio, era scalza. L'ha vista un fotografo dell'Associated press, che si è rivolto tremante ad un ufficiale olandese, il quale ha risposto: «Pensiamo ai vivi». Non c'è bisogno di indagare sui motivi di quel suicidio. Ancora adesso, quattro anni dopo l'inizio della guerra e l'indignazione del mondo, la pratica dello stupro etnico ha scatenato le soldataglie serbe. «Le hanno fatte spogliare davanti a tutti», mi raccontava Riferiva anche un dettaglio strano, la ragazza. «I primi profughi, arrivati l'altra notte, hanno raccontato di serbi che non violentavano le donne ed ai bambini regalavano barrette di Toblerone. Sì, questa volta i primi sono stati più fortunati». Forse le truppe che avevano preso Srebrenica erano euforiche per la vittoria, e festeggiavano così. Più probabilmente, quelli che sono arrivati subito dopo erano i componenti le famose «formazioni patriottiche», bande di delinquenti professionali. «E' una catastrofe umanitaria - continuano a dire con aria contrita i vari funzionari dell'Onu - Una catastrofe che se altri profughi dovessero giungere si trasformerebbe in disastro». Coraggio, non resta che attaccarci al dizionario dei sinonimi: domani il disastro si trasformerà in devastazione, poi la devastazione in ecatombe, infine qualcuno conierà qualche termine nuovo. E' fin troppo chiaro che siamo appena agli inizi. Il Comune di Tuzla sta pensando di collocare all'interno della città una parte dei profughi, forse due o tremila, la gente però ne ha paura. Nella libera città che un mese e mezzo fa, con la bomba del caffè bar, ha perso gran parte della sua gioventù, si guarda ai rifugiati con diffidenza, si temono nuove tensioni. Mi hanno raccontato che qualcuno l'altra notte a Tuzla ha fatto bruciare la casa di una famiglia di origine croata, come a dire: «Andatevene». Il rischio che ci si cominci ad azzannare nella fossa è sempre più vicino. Ieri, da Kladanj a Zivinice a Tuzla ho visto gente senza più speranza che magari crollava, ma spesso all'avvicinarsi di un casco blu (di un povero casco blu olandese perso in una marea di profughi) brandiva il bastone per minacciarlo. Questi non sono rifugiati che mostreranno gratitudine a chi li aiuterà, se mai qualcuno si deciderà a farlo. Sono persone che all'Onu, all'Europa, al mondo addebitano tre anni di fame e disinteresse (lì, nella città dell'«assedio protetto») e adesso l'ultimo tradimento. Stanno devastando quel che resta di se stessi ed anche gli ultimi brandelli della nostra dignità. Giuseppe Zaccaria una donna anziana, ferma dietro i cavalli di frisia all'aeroporto, indicando col mento quattro giovani donne che stavano in disparte, e non urlavano con le altre. «Eravamo sullo stesso autobus: l'hanno fermato che ancora non eravamo usciti da Srebrenica, quattro soldati sono saliti e a tutte le donne giovani hanno fatto segno di scendere, agitando le armi». Ci sono state ragazze che hanno dovuto spogliarsi per strada, sull'asfalto, per poi indossare fra lazzi e commenti osceni una divisa impregnata di sudore del «Bsa», l'esercito di Karadzic. Altre che non hanno indossato nulla, ma sono semplicemente scomparse. E gli uomini? «Secondo i calcoli più ottimistici settecento mancano all'appello, secondo i pessimistici duemila», mi ha spiegato una ragazza che si chiama Meliha Kadribasic, ha 24 anni e ieri, verso le sedici, sembrava rimasta sola a gestire il Comune di Tuzla. «Sono cifre ancora incerte perché non sappiamo quanti, fra i mariti e i fratelli che ci segnalano scomparsi, sono ancora nascosti nei boschi o fermi lungo le strade. Sappiamo però che i serbi hanno trasportato tutti gli uomini validi che sono riusciti a catturare a Srebrenica in due campi, Bratunac e Konjevic Polje». P, ... * » i *v *» *f * Donne e bambini sporchi e affamati che imprecano e tendono le mani Le ragazze costrette dai serbi a denudarsi in strada. Una di loro si è impiccata per la vergogna Mladic carezza i bambini bosniaco-musulmani destinati alla deportazione

Persone citate: Donne, Giuseppe Zaccaria, Karadzic, Kesserling, Mladic

Luoghi citati: Comune Di Tuzla, Europa, Kladanj, Sarajevo, Tuzla, Varsavia, Zivinice