«Un insulto a 60 mila morti »

Un insulto a 60 mila morti Un insulto a 60 mila morti » Il generale Westmoreland grida il suo no LO STRATEGA DELLA GUERRA NEW YORK NOSTRO SERVIZIO Non renderà felici tutti l'annuncio con cui oggi Bill Clinton dichiarerà ufficialmente finita la guerra con il Vietnam attraverso la totale normalizzazione dei rapporti fra Washington e Hanoi. Non saranno felici quei reduci per i quali è difficile ammettere che gli anni passati nella giungla vietnamita furono perduti, non saranno felici le famiglie dei caduti e non saranno felici i superpatrioti, agli occhi dei quali il fatto che a compiere questo passo sia proprio queH'«imboscato» di Clinton suona come un ulteriore oltraggio. Ma soprattutto a non essere felice è l'uomo che di quella «sporca guerra» divenne a un certo punto il simbolo vivente: il generale William Childs Westmoreland. Prima come comandante delle operazioni dal 1964 al 1968, poi come capo dello Stato Maggiore, Westmoreland fu allo stesso tempo l'ispiratore e l'esecutore della teoria dell'«escalation», sostenuta a livello politico dall'allora segretario alla Difesa Robert McNamara, oggi ((pentito». Il suo nome veniva gridato (insieme con l'epiteto «boia») nei cortei che in quegli anni attraversavano tutte le città del mondo; la sua immagine veniva bruciata davanti alle ambasciate degli Stati Uniti e le sue qualità di stratega venivano sbeffeggiate perché nonostante tutto non riusciva ad avere ragione di quel «piccolo popolo di contadini». Se ne andò in pensione nel 1972 perché non se la sentì di avallare il «disimpegno» che Richard Nixon aveva intrapreso in quel periodo. Nel 1975, quando finalmente la guerra finì, lui era già un politico mancato, nel senso che aveva tentato di diventare governatore repubblicano del «suo» South Carolina ma la «nomination» gli era stata negata. Oggi Westmoreland ha 82 anni, se ne sta nella sua casa di Charleston, appunto in South Carolina, dove spesso arrivano i suoi tanti nipotini a gettare scompiglio e di tanto in tanto tiene quanche conferenza in giro per il Paese. La notizia che il Vietnam da oggi sarà un Paese «come tutti gli altri», con la sua amba sciata a Washington, non l'ha mandata giù molto facilmente. Come l'ha presa, generale? «E' una decisione prematura Avrei preferito che si fosse aspettato ancora un po'. Che si fossero pretese dal governo del Vietnam ulteriori riforme per realizzare una democrazia più accettabile per noi». Ne ha parlato con qualcuno dell'amministrazione Clinton? «Io con la struttura di governo non ho più a che fare da un bel pezzo. Nessuno mi ha consultato, ma comunque l'Amministrazione sa come la penso». E com'è che la pensa? Ritiene che il Vietnam debba ancora essere considerato un Paese nemico? «No, non necessariamente un ne¬ mico, ma certo neanche un amico. Dopotutto si tratta pur sempre di un governo comunista. Fra considerare nemico un Paese e riconoscerlo in pieno sul piano diplomatico ci dovrebbe pure essere qualche via intermedia». Generale, il mondo è pieno di Paesi con strutture di governo che non corrispondono all'idea americana di democrazia, e tuttavia gli Stati Uniti hanno con essi normali rapporti diplomatici, economici, culturali. Perché il Vietnam no? «E me lo chiede? In Vietnam sono morti quasi 60.000 soldati americani. Quelli che oggi stanno al governo sono quelli che li hanno uccisi. Non le sembra una differenza sufficiente con gli altri Paesi?». Insomma la normalizzazione dei rapporti è una cosa che la rende triste. «Mah. Triste non credo che sia la parola giusta. O forse sì. Di sicuro sarei stato molto più contento se questa cosa fosse stata almeno rimandata. Anche per loro. Voglio dire per i vietnamiti. Se il nostro governo li avesse incalzati un po' più a lungo sul problema dei dispersi e delle riforme democratiche, forse sarebbero arrivati a questo traguardo in una situazione di maggiore libertà». Intende intraprendere un'azione contro la decisione di Bill Clinton? «Azione? Ma no. Quello che avevo da dire l'ho detto. Il tempo delle azioni per me è finito. Lo sente tutto questo baccano? Sono i miei nipoti che mi reclamano perché il barbercue là fuori è pronto. Siamo nella nostra casa sulle montagne del South Carolina. Il tempo è splendido e l'aria è fresca». Durante gli anni della guerra ci fu una sua famosa deposizione al Congresso. Sostenne con grande passione la richiesta del presidente Johnson di ulteriori stanziamenti e promise solennemente che la vittoria era ormai a portata di mano. Bastava un altro piccolo sforzo finanziario. «E qual è la domanda?». Beh, era proprio convinto di quello che diceva? «Certo. Disgraziatamente quell'ulteriore sforzo finanziario non fu approvato». Vuol dire che fu il Congresso a farle perdere quella guerra? «Voglio dire che a perderla furono Te condizioni politiche, non quelle militari». E' d'accordo con ciò che disse una volta Ronald Reagan, che la guerra del Vietnam gli Stati Uniti hanno «voluto» perderla? «Non ricordo di avere mai sentito Reagan dire una cosa del genere. Di sicuro posso dirle che io quella guerra la volevo vincere e che le possibilità di vincerla c'erano». Ha letto il libro di McNamara? «Lo sapevo che me l'avrebbe chiesto. Sì, l'ho letto». E che ne pensa? «Che sono in totale disaccordo con lui». Cioè, non crede che siano stati compiuti tanti errori, che alla fine quella guerra si è rivelata del tutto mutile e che tante vite potevano e dovevano essere risparmiate? «Secondo me McNamara non tiene minimamente conto delle condizioni strategico-politiche di quegli anni. L'ho detto anche a lui». Vi siete parlati dopo l'uscita del libro? «No, ci siamo parlati mentre lui lo stava scrivendo, anche se io non lo sapevo». Come sarebbe a dire? «Sarebbe a dire che McNamara venne a trovarmi, facemmo una lunga chiacchierata in cui tutti e due esprimemmo con grande libertà i nostri punti di vista, ma non mi disse che stava scrivendo un libro su quell'argomento». Insomma McNamara l'ha ingannata? «No, dico solo che mentre parlavamo io pensavo di discutere con un vecchio amico mentre lui stava prendendo appunti mentali per il suo libro». Franco Pantarelli «Al governo ci sono dei comunisti gli stessi che hanno ucciso i nostri ragazzi» Westmoreland e, foto piccola, l'allora segretario alla Difesa Robert McNamara A destra un turista UnIl gen Soldati americani in azione nella «sporca guerra» vietnamita Il generale Westmoreland e, foto piccola, l'allora segretario alla Difesa Robert McNamara A destra un turista