ANCHE UN VAGITO FA NARRATORE?

ANCHE UN VAGITO FA NARRATORE? ANCHE UN VAGITO FA NARRATORE? La Porta: una mappa di fine secolo IN un polemico intervento di Veronesi, a celebrazione e rivendicazione di ascolto per gli «scrittori giovani», al quale ho risposto con qualche ironia, veniva citato come critico adeguato alla nuova narrativa italiana, fra gli altri, Filippo La Porta, in quanto dotato di una capacità di lettura particolarmente acuta e consentanea nei confronti di una generazione di narratori che (come, del resto, da sempre è accaduto) vogliono anzitutto segnare con forza la loro diversità rispetto a quelli che sono venuti prima, nel Novecento. Ora La Porta pubblica un libro che si intitola, appunto, La nuova narrativa italiana, Travestimenti e stili di fine secolo (Bollati Boringhieri, pp. 228, L. 24.000) dove non uno dei narratori «nuovi» è tralasciato, neppure quelli che appena sono alla prima o alla seconda opera. La Porta, insomma, ha operato come il Ghino di Tacco della novella del Boccaccio, che cattura l'abate di Clignì mentre va alle terme e tutto il seguito, fino all'ultimo servitore. Il paragone regge perché sono passati in rassegna ed esaminati, insieme con narratori di ormai consolidata carriera, come Tabucchi, Magris, Vassalli, Celati, anche autori ai primi vagiti, sia pure, in qualche caso, quanto mai promettenti, come Canobbio, Voltolini, Ballestra, Sebaste, Carabba e molti altri ancora, sempre con la puntuale capacità di cogliere il significato delle singole operazioni letterarie al seguito di quell'«incanto» che la narrativa, così indocile a regole e usi immediati, determina in chi l'avvicina e ne percorre le mappe. E' quanto La Porta dice nell'avvertenza iniziale al suo libro: e davvero non potrebbe esserci per un critico una dichiarazione di intenti più persuasiva ed espressa in modo più fascinoso e letterariamente elegante. Né da meno è YIntroduzione, che cerca di cogliere il senso della narrativa venuta dopo quelli che a La Porta appaiono come i due romanzi decisivi nella liquidazione dell'idea del narrare del Novecento, // nome della rosa di Eco e Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino, e, di conseguenza, carica della preoccupazione di riprendere a raccontare, con un che di astuto e di prudentemente avventuroso, in un mondo letterario divenuto cosi il difeso, così incerto, così, al tempo stesso, trasgressivo e conformista; e proprio queste appaiono a La Porta le più evidenti ambiguità della nuova narrativa italiana. Già nell'Introduzione e poi nei capitoli che cercano di raggruppare per qualche affinità i nuovi narratori mi sembra si possa cogliere un atteggiamento costante del critico: la tendenza, cioè, una volta definito il mondo dello scrittore, ad andare oltre alla considerazione e all'analisi letteraria per reperire e illustrare altri significati, costume, di relazione con la società e con la storia, di mentalità, di assilli di generazione o di difficile definizione di sé, degli altri, dei sentimenti, delle stesse azioni. Di qui nasce, a volte, l'impressione che lo scrittore preso in esame sia inevitabilmente da attraversare per giungere ad altri problemi, ad altre situazioni, che sono contigue alla letteratu¬ ra, ma ne sono fuori; e allora il romanzo finisce a diventare un documento, non, come si usava anni fa, di carattere sociologico 0 storico, ma piuttosto di tipo antropologico, secondo una segreta disposizione di acuto e inquieto moralista che mi sembra operi al di sotto dell'analisi critica di La Porta. Tipico, a questo proposito, è il felice ritratto di uno scrittore a mio parere molto sopravvalutato, come Tondelli, visto nell'indubbia, ma anche limitata capacità di raccontare i miti giovanili dei suoi anni; ma anche quanto La Porta scrive di autori come Celati, come Vassalli, come soprattutto Tabucchi, molto più difficili da attraversare per lo spessore letterario ben altrimenti consistente della loro opera, e allora considerati un poco marginalmente, con sapiente gioco di immagini letterarie, secondo quello che è, d'altra parte, un modo caratteristico della critica di La Porta, tanto suggestiva e viva anche per questa virtù di scrittura. Ma l'impressione finisce a essere quella di una sorta di omologazione di fondo dei nuovi narratori, una sorta di riduzione di rilevanza e di individualità a favore del significato di illustrazione dei tempi e dell'idea di letteratura che il critico in essi va a cercare e ritrova e descrive, in questo modo polarizzando l'attenzione su questo piano generale più che sulle opere particolarmente esaminate. Molto probabilmente, per molta parte di esse, non c'è altro da fare: e la recente lettura di parecchi romanzi degli scrittori catalogati da La Porta ha condotto anche me a rilevare una certa indistinzione, perfino quando il narratore tenta le strade della sperimentazione linguistica, dell'espressionismo, dell'abbondanza e perfino della sovrabbondanza delle immagini, delle sfrenate fantasie verbali, ma per lo più di tipo soltanto elencatorio o al massimo combinatorio. E, allora, per prendere un poco di distanza da tale situazione, La Porta, con sottile allusività e in modo un poco provocatorio, inserisce, fra 1 «nuovi», alcuni scrittori di altra età anagrafica, ma, forse, suggeribili come più compiutamente significativi e, addirittura, esemplari, come Malerba, Macchia, Magris, Ceronetti, Canali, Paolo Milano come diarista: cioè, autori che narrano il mondo attraverso la riflessione, l'oggettivazione saggistica, la disposizione del moralista (e qui La Porta osserva, per esempio, che appunto scrittore morale è Canali, a malgrado di quella che il critico chiama ostinazione a voler presentare le proprie opere sotto l'etichetta di «romanzi»). Vedo, dietro tale aggiunta alla nuova narrativa italiana (ma non vorrei essere troppo malizioso), la scelta di uno spazio di libero, luminoso, libero agio e piacere della letteratura in alternativa rispetto al troppo condizionato e limitato discorso intorno a narratori che danno sempre un'impressione di effimero, di precario, e devono, allora, essere affrontati non tanto per quello che sono, quanto per quello che significano per capire mentalità, gusti, tendenze dei nostri anni, che così presto sfioriranno, senza lasciare molte tracce, se sono affidati a voci tanto anche pateticamente incerte. Giorgio Bàrberi Squarotti