Atto d'accusa contro i comunisti dell'Est europeo colpevoli di memoricidio L'EBREO INVISIBILE di Enzo Bettiza

Atto d'accusa contro i comunisti dell'Est europeo: colpevoli di memoricidio Atto d'accusa contro i comunisti dell'Est europeo: colpevoli di memoricidio CHI sono gli ebrei invisibili? Perché sono diventati invisibili? Come e quando e quante volte lo sono diventati, o rischiano tuttora di ridiventarlo? A questo pacchetto di domande oltremodo intriganti, a tratti incresciose, accusatorie ed autoaccusatorie, cerca di dare una serie di esaurienti risposte l'interessantissimo libro di due ebrei italiani nati dopo la Shoà, Gabriele Nissim e Gabriele Eschenazi. Il titolo e il sottotitolo della loro notevole opera c'introducono subito nel cuore del dramma: Ebrei invisibili -I sopravvissuti dell'Europa orientale dal comunismo ad oggi (Le Scie, Mondadori, pp. 539, L. 45.000). I due autori appena quarantenni si definiscono modestamente giornalisti. Ma questo loro lavoro in comune, estremamente complesso, iniziato nel fatidico 1989 e concluso dopo quattro anni d'interviste e di ricerche capillari in sei Paesi dell'Europa ex comunista, è il risultato di una fatica che va ben oltre la semplice inchiesta per approdare alla dimensione e alla multiforme completezza del grande saggio storico. Dirò di più. E' uno studio pacato e oggettivo, in cui anche i momenti di polemica e di denuncia si basano su testimonianze e dati di fatto rigorosamente controllati alla fonte, che per il suo livello alto e mai provinciale onora la saggistica italiana. I sei Paesi dell'Europa ex comunista, potremmo anche dire ex Europa dell'Est, studiati dagli autori, sono quelli in cui si è consumato l'Olocausto della stragrande maggioranza degli ebrei europei: Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia e Germania orientale. Fra l'altro il libro di Nissim e di Eschenazi, dopo la letteratura ormai cinquantennale sul tragico destino genocida inflitto agli ebrei dall'ideologia nazista, è il primo che cerchi di dare una visibilità sistematica e organica alla seconda più sommersa tragedia ebraica: quella che, simile a una sinistra musica di contrappunto e di sottofondo, ha preceduto, accompagnato e addirittura seguito in alcuni dei Paesi in questione l'infernale sinfonia wagneriana della Shoà intonata in piena guerra dalla Germania hitleriana. Insomma, l'antisemitismo esacerbato e omicida delle SS di Himmler, delle teorie razziste di Rosenberg, della forsennata propaganda giudeofobica di Goebbels, era spesso caduto all'Est sull'humus fertile e antico degli antisemitismi indigeni. Quando l'Ungheria, sul finire della guerra, viene brutalmente satellizzata dalla Germania nazionalsocialista e costretta controvo- Un 'immagine del ghetto di Varsavia rievocalo da Nissim e Eschenazi glia a seguirne la paranoia antisemita, vediamo gli ebrei magiari, i più «nazionali» e più assimilati di tutto l'Est, vilmente traditi dalla quasi totale indifferenza della popolazione per la loro sorte drammatica. Vediamo la Slovacchia nazificata di monsignor Tiso dare una mano ai tedeschi nella costruzione dei campi di sterminio e nella caccia alle vittime che vi andranno a morire. Vediamo le Guardie di Ferro «cristiane e antisemite» del romeno Codreanu gareggiare coi nazisti tedeschi, in Bucovina e Bessarabia, nei massacri e nei saccheggi perpetrati contro le comunità ebraiche locali. Non solo. Perfino nella Polonia neppure satellizzata dai nazisti, neppure dotata di un governo fantoccio, direttamente vessata da Berlino, trattata alla stessa stregua dei suoi tre milioni di ebrei come la più infima delle comunità nazionali europee, l'ancestrale antisemitismo popolare continua a persistere in totale e sadica indifferenza per la lenta necrosi degli uomini, delle donne e dei bambini rinchiusi nel ghetto di Varsavia. Il caso polacco, che vede le vittime polacche dei nazisti continuare a odiare le vittime ebree degli stessi nazisti, è il più stupefacente e paradossale. A ridosso del¬ le mura sbarrate del ghetto di Varsavia, il più grande d'Europa, dietro le quali la gente muore ogni giorno di fame e di stenti, le giostre dei bambini non ebrei seguitano a girare, i caffè rigurgitano, la vita pur sotto l'umiliante occupazione tedesca va avanti volutamente ignara della mortalità infantile ebraica che, a un passo da lì, raggiunge ormai cifre africane. Nel ghetto in agonia, circondato dall'ignavia dei polacchi, sembra quasi d'intravedere il preannuncio del futuro ghetto totale di Sarajevo circondato dall'indifferenza degli europei. Sull'antisemitismo endogeno delle popolazioni e delle élites dell'Est europeo, spesso sussidiario e complice dell'antisemitismo nazista culminato nelle camere a gas, si è poi innestato con tutte le sue contraddizioni e ambiguità il memoricidio consumato ai danni dell'Olocausto dai successivi regimi comunisti. E' in quel secondo fatale ricorso totalitario, dopo il nazismo, che gli ebrei, già fisicamente «invisibili» per tanti polacchi o romeni durante la Shoà, diventano ideologicamente «invisibili» dopo la Shoà. I comunisti perfino nella Germania dell'Est, sui cui giornali scrivono vecchi arnesi di Goebbels e di Rosenberg, rimuovono oculatamente il ricordo del genocidio in quanto precipuo genocidio dell'umanità ebraica. L'Olocausto, con la maiuscola, diventa per i nuovi regimi comunisti, ai quali in buona o cattiva fede aderiscono tanti ebrei, un generico olocausto minuscolo di una indifferenziata umanità «antifascista» e «anticapitalista». Scrivono acutamente Nissim ed Eschenazi: «Presentandosi come antitesi radicale al capitalismo, del quale nazifascismo e antisemitismo sarebbero solo varianti sia pure estreme, il comunismo ha deresponsabilizzato gli individui impedendo il formarsi di una memoria storica e di una coscienza critica e autocritica dell'Olocausto». In altre parole: i poteri comunisti da Berlino Est a Varsavia, da Budapest a Bucarest, hanno in più modi cercato di delegittimare la specificità ebraica di Auschwitz rendendo così invisibili nel loro martirio i milioni di ebrei che vi sono morti di fame, di malattia e di gas. Non a caso, ai tempi in cui lavoravo a Mosca come corrispondente de La Stampa, non riuscivo mai a trovare nelle prime pagine della Pravda o delle Izvestija un resoconto esauriente del processo Eichmann in Israele; su quel fatto del secolo, che fra i suoi cronisti ebbe una Hannah Arendt, scoprivo solo di quando in quando nelle ultime pagine uno scarno trafiletto d'agenzia. Il comunismo all'Est si rese non solo responsabile di questo sottile memoricidio, occultato sotto i clangori della demagogia antifascista, ma, reclutando tra le sue file moltissimi scampati alla Shoà, contribuì a inasprire il radicato antisemitismo popolare delle masse che si vedevano e sentivano oppresse da dirigenti marxisti d'estrazione ebraica. Fu anche questo uno dei drammi, seppure silenzioso e poco noto in Occidente, del lungo esperimento comunista nell'Europa centrorientale appena liberata dal giogo nazista. La maggioranza dei sopravvissuti ebrei non divenne affatto comunista. Ma, purtroppo e viceversa, molti nuovi capi comunisti, da Slansky in Cecoslovacchia ad Ana Pauker in Romania, erano quasi dovunque nel dopoguerra d'origine ebraica. Certo, l'utopia internazionalista sembrava promettere a tanti intellettuali e marxisti israeliti un superamento palingenetico della «questione ebraica» in un mondo rinnovato dalla rivoluzione, non più solcato da steccati di classe, di razza, di religione. Poi, per un tragico scarto di eterogenesi, molti di questi intellettuali marxisti, che avrebbero desiderato superare le ambiguità e difficoltà dell'assimilazione nazionale in una sorta di annullamento internazionalistico del problema, divennero artefici o strumenti della macchina di terrore staliniana. Ciò non fece che aumentare ulteriormente il mai sopito odio antisemita di tanti polacchi, slovacchi, romeni, suggerendo una semplicistica equazione perdurante fin dal 1917: ebreo=comunista. Così, ancora dopo il 1956, soprattutto attorno al 1968 in Polonia, la teoria della «giudeocomune», ovvero di un presunto complotto internazionale ebraico-comunista a danno delle popolazioni locali, fu riadottata anzitutto dagli antisemiti tradizionali; poi, opportunamente truccata col termine di «sionismo», venne utilizzata dagli stessi dirigenti comunisti per regolamenti di conti interni, e per una demagogica rilegittimazione «ariana» del proprio potere agli occhi delle masse antiebraiche. Non è che una minima parte, quel che ho scritto fin qui, degli infiniti materiali storici e spunti di riflessione morale che questi Ebrei invisibili offrono al lettore anche preparato e informato. Un libro che senz'altro sarebbe piaciuto a quel lucido scopritore e investigatore della «zona grigia», la zona morta in cui la distinzione netta fra bene e male scompare, che fu Primo Levi. Gli sarebbe in particolare piaciuto lo sguardo crudo, disinfestante, sviscerante, senza falsi pietismi e mezze verità, con cui Nissim ed Eschenazi hanno saputo affrontare spregiudicatamente la tragedia di tre milioni di ebrei polacchi e di sette milioni di ebrei centrorientali. Una tipica tragedia contemporanea da «zona grigia». Enzo Bettiza