I segreti di Degas nascosti nelle foto di Marco Vallora

I segreti di Degas nascosti nelle foto i ritratti esposti a Tubinga I segreti di Degas nascosti nelle foto C, TUBINGA / E' un'immagine sfumala di matita grassa, nella consigliabile mostra di _ ì Ritratti di Vegas, che sembra spiegare ogni cosa, svelare l'inafferrabile segreto dell'artista, che sempre riluttò a lasciarsi incollare addosso l'etichetta di comodo d'impressionista. Lui che non sopportava la luce dell'eri plein air («certo, e bel tempo, ma é piti Monet di quanto i miei occhi possano tollerare'», trinciava maligno) e che soprattutto non condivideva certe smancerie paesaggistiche: «Davvero non cado in deliquio di fronte ad uno stagno». Preferiva la luce viziala degli interni, le intimidite illuminazioni a gas, di bordelli e caféchantants. Ebbene, in questo embo d'autoritratto «leonardesco» di ragazzo vecchissimo, noi non vediamo che una minima porzione del suo volto, come velato da un sudario immaginario, tagliato sino al naso, disfatto nel bianco vuoto minaccioso del non-finito. Un programma di spersonalizzazione, che s'incarnerà in un bellissimo aforisma: «Io vorrei essere illustre e sconosciuto»/ Perché il disegno «non è ciò che si vede, ma ciò che si fa vedere agli altri». Ed è giusto chi; l'intelligente mostra che i devoti di Degas, se l'hanno mancata a Zurigo, dovrebbero recuperare inseguendola sino al 18 luglio alla Kunsthalle di Tubinga, si apra mostrando le fotografie di Degas, perché meglio ci illumina su quelle che erano le tensioni originalissime della rivoluzione ottica di Degas. Che appunto ben poco hanno a che fare con l'impressionismo. Si capisce meglio come Degas voglia «inquadrare» il mondo: prospettive inusuali, sghembe, ritagliate, come quando salirà su una scala, per ritrarre «schiacciato in basso» Diego Martelli. Appunto, non secondo una libertà festevole, luminosa di impressioni. Le sue sono immagini fotografiche di antri borghesi, di ingrottamento: l'ombra regna sovrana e le fisionomie si strappano a stento dal fondo amniotico. Le cose, i volti hanno un guizzo fantasmatico, di fronte alla macchina: ma già sono pronti a cancellarsi nell'indistinto, a rientrare nel sonno perenne del nitrato d'argento. L'amico Mallarmé non è che uno sfuggente ectoplasma, una sonorità debussiste che si rifluì te soltanto nello specchio altoborghese della sua casa poni pier, mentre in primo piano la moglie diventa un manichino imbottito. E guarda caso le Meninas di Degas hanno trovato la via della modernità fotografica. Renoir e Mallarmé si sostengono guardinghi, in una posa scultorea, blocco alla Rodili: ma lo specchio alle loro spalle tradisce la presenza del pittore riflesso, alle prese con la sua voluminosa camera oscura. La luce ferisce soltanto qualche dettaglio significante, in rilievo, come in un Tiziano fine Ottocento. Nonostante Degas, per alcune incisioni, lavori d'apres Rembrandt, il suo atteggiamento nei confronti dell'autoritratto non è così vittoriosamente narcisistico, sicuro, com'è stato per l'olandese. Lui, modesto, distratto da sé, insofferente, usa il proprio volto come una lastra su cui saggiare i suoi esperimenti ottici. Perché ò poi questo che gli interessa: il rac conto di uno sguardo. Quella sua fisionomia un poco appannata, molli?, com'è nell'incisione dell 'Autoritratto con cappello floscio: lo sguardo bolso, cotto, eppure vigile, interrogativo, temperato come una matita Sensibile come una lastra fotografica, vulnerabile come una vista offesa. Il prototipo dello sguardo malinconico, denso di idee e di malesseri, nomade: discostato dalla vita, per ritrovarsi più dentro. «E' sin d'ora l'uomo che m'è sembrato meglio afferrare, nella commedia della vita moderna, l'anima segreta della vita», scriveva nel 1874 Goncourt nel suo diario. «Il più grande della nostra epoca», come andava predicando l'issarro. Lui aveva un corto legame soltanto con Manet, che aveva incontrato davanti ad un quadro di Velazquez, al Louvre. Si rispettano, ma sono rivali: cosi Degas preferisce ritrarre il fratello litigóne Manet, alle corse, in uno dei rari ritratti all'aperto, solari. Cosi usa anche i suoi, di famigliari: non ritrae quasi nessun altro, tranne qualche amico intellettuale, rifiuta le commesse. Il fratello Rene, che avrà vita infelice, la sorella Marguerite, i panniti italiani, i Bellelli e i Carata. Le due quasi-gemelle Elena e Camilla sembrano uno scialbo, scrostato riflesso di specchio: Camminano sempre l'ima un passo dall'altra, come per lasciare un'ombra di sé. Thérèsé Degas in Morbilli ha un matrimonio difficile: lo si intuisce da quel capolavoro di duplice ritratto «etrusco», lei come bloccata nella paura, accanto al burbero consorte. Si risente ancora l'influenza dell'adorato Ingres, che gli aveva consigliato: «Giovanotto, fato delle linee... delle linee, ma mai d'apres la nature». Ed è interessante, in mostra, seguire questo suo apprendistato, che coincide soprattutto con il viaggio in Italia. L'amore per le sagome di pietra dura, Cariani, Holbein, Bronzino. Ma poi intravediamo subito quelle sue scorciatoie nervose, nevrotiche anzi, quella sua tensione naturale al non-finito. Le ultime opere, magnifiche, sono tutte come dei tentativi lasciati, se non abortiti: nemmeno più la stenografia di Whistler o Sargent, o dei nostri Boldini e De Niltis, ma la cancellazione. Sfondi spiumati e piluccati di luce, che annunciano Odillon Redon e vanno anche oltre il post-impressionismo. Il ghiaccio tenebroso dello specchio di Mine Jeantaud, che non riflette più alcuna immagine. Altro che macchiaiolo, lui è già tachisteì I volti sono decollati dalla fretta, dall'ansia d'una definizione insofferente. La luce che proviene dalla finestra accieca la silhouette di M.me Villette. L'immagine disfa, invece di affermare. Mary Cassai si aggira per il Louvre con un ombrellino da passeggio: ma man mano che l'idea si perfeziona, dietro di lei, nel capolavoro alla National di Washington, s'infrange come una corsa spappolata di colori, che evocano la vita fantasmatica dei quadri, la realtà del museo. L'indefinito. Ritrarre tutta la vita per non evocare più nessuna immagine. Per scoprire il rumoroso silenzio del vedere. Marco Vallora Uno dei ritratti di Degas in mostra a Tubinga "M me Villette» opera del 1872 in cui la luce proveniente dalla finestra sembra accecare la silhouette della donna

Luoghi citati: Italia, Zurigo