L'America adulta non ci capisce raccontiamoci da soli

L'America adulta non ci capisce, raccontiamoci da soli Pensieri, emozioni, esperienze di nove ragazzi: arriva in Italia un'antologia nata da un annuncio su un giornale L'America adulta non ci capisce, raccontiamoci da soli Fra turpiloquio e candore, per uscire dall'etichetta di «generazione shampoo» ITCH Berman è un giovane scrittore che ha pubblicato su varie riviste, tra cui il Village Voi- ce, e dopo quattro anni di permanenza a New York sostiene che la città si trasformerà presto in un insediamento di sfollati, con baracche di cartone per le strade, fili per i panni sui falò, agricoltori armati che montano la guardia agli orti in Central Park. E. J. Graff invece è meno pessimista e dice: «Sono cresciuta come una diversa - ebrea, divoratrice di libri, lesbica - a Beavercreek, in Ohio, e sono scappata all'Est alla prima occasione». Ora vive a Boston con la sua compagna e scrive testi pubblicitari per aziende sensibili ai problemi sociali e ambientali. Un po' come Frrd Leebron, che è sposato e a San Francisco si occupa dei rifugi per i senza tetto. Bryan Malessa invece si è distinto per «comportamento antisociale» e lo hanno sbattuto fuori da tutte le scuole. E' finito in un centro di riabilitazione dello Stato e poi sulle montagne della California a scrivere. Ora studia a Berkeley. Sono alcuni dei «nuovi narratori americani» che firmano i Racconti della post-generation, un piccolo «caso» dell'editoria americana che esce ora da Theoria, nella traduzione di Cristiana Mennella: nove ragazzi tra i 20 e i 25 anni che hanno risposto a questo annuncio sul Chicago Reader: «Attenzione giovani scrittori!!! Si accettano racconti per Voices of the Xiled, un'antologia che documenta pensieri, esperienze, emozioni dell'attuale genera¬ zione "intorno ai vent'anni". Ben vengano gli scrittori esordienti». Seguiva un indirizzo del New Jersey dove, quando l'annuncio fu ripreso dalle radio nazionali, arrivarono più di tremila manoscritti: un cumulo di parole aspre e sgangherate, brucianti o compiaciute in cui si condensava l'anima dell'America giovane. Michael Wexler e John Hulme, i curatori dell'antologia, raccontano che erano stanchi di non riuscire a riconoscersi nelle etichette che i critici applicavano alla loro generazione, stanchi di sentirsi chiamare generazione X o generazione shampoo, stanchi di prediche sulla natura enigmatica dei giovani. «Dopo aver cercato in lungo e il largo una autorevole voce che per lo meno si avvicinasse a come la pensavamo, ci siamo detti: Janculo, il libro ce lo scriviamo da soli». E il tono dei racconti della post generation è proprio questo: turpiloquio e un certo ca- dorè che danno alle storie più brutali, quelle sulla droga e la miseria intellettuale, un'aria di derivazione cinematografica: come se invece di raccontare se stessi raccontassero come il cinema li vede. Ma Abraham Rodriguez non sarebbe d'accordo. E' così affezionato ai ragazzini del South Bronx che fa leggere loro tutto ciò che scrive per esser sicuro di rispecchiare davvero il loro ambiente. «Frequentare questi ragazzini ha reso il mio modo di scrivere più realistico e più umano», spiega nell'introduzione a un racconto che si intitola Bambini, in cui parla di eroina e neonati, di abbandoni e di aborti. E. J. Graff si concentra invece sulla scoperta della propria omosessualità nel pieno di una crisi d'ozio che sa lontano un miglio di depressione. Bryan Malessa scrive una lettera al grande Raymond Carver, che è ancora il santo protettore di tutti gli sbandati del neoreali¬ smo americano. Mitch Berman racconta di una coppia di ragazzi normali, circondati da pazzi, skinhead che picchiano, genitori che cambiano Stato e cambiano sesso. Ma il più spiritoso è David Foster Wallace, il quale ammette che quando la sua fidanzata ha letto il suo racconto su un ragazzo ricco di Los Angeles che frequenta solo punk, fa solo sesso orale e si eccita solo a bruciare la pelle degli altri, lo ha piantato in asso disgustata. «Una delle grandi ironie di tutta questa esperienza - concludono Michael Wexler e John Hulme, i due curatori di un'antologia che vorrebbe essere lo specchio della nuova America - è che i nostri racconti non ce l'hanno fatta a essere inclusi nella raccolta. Li abbiamo presentati usando uno pseudonimo e senza volerlo uno ha eliminato quello dell'altro». Livia Manera Un'immagine di New York