Oggi parte il Giro di Francia l'avventura ciclistica che nessun italiano riesce a vincere da 30 anni

Oggi parte il Giro di Francia, l'avventura ciclistica che nessun italiano riesce a vincere da 30 anni Oggi parte il Giro di Francia, l'avventura ciclistica che nessun italiano riesce a vincere da 30 anni ONO trent'anni da che un L" italiano non vince più il % Tour de France, cioè la il più grande prova ciclistis£ 1 ca e secondo taluni la più grande prova sportiva del mondo. L'ultimo è stato Felice Gimondi, bergamasco di Sedrina, classe 1942, ora assicuratore e dirigente ciclistico, con villa-castello nella bassa valle, moglie di resistentissima bellezza maiolicata e due figlie provviste dello stesso suo sorriso: un sorriso etico, da letteratura, e infatti «Le sourire de Gimondi» fu il titolo di un racconto che valse un premio letterario a un giornalista francese pieno di genio e di pemod. Gimondi sino a pochi giorni fa era riuscito a non accorgersi che cosi tanto tempo è passato: forse per non dover dire che statisticamente tanto ne passerà ancora, perché un altro Gimondi non si vede, neppure usando la lente di ingrandimento per scrutare e studiare Marco Pantani, scalatore, terzo l'anno scorso e attesissimo al via di quest'anno, il 1° luglio. «Un po' mi difendevo dal tempo che passa ignorandolo, ma questo vale per tutta la mia vita. No, la cifra tonda, i trent'anni, mi ha proprio sorpreso. E anche un po' aggredito. Trent'anni mi fanno male: sono tanti per la mia anagrafe ma anche per il ciclismo italiano che amo, alla faccia della gelosia mia per il mio primato». Del Tour 1965 Gimondi conserva un ricordo più tenero che epico, più delicato che eroico: «Anche se c'erano tutti gli ingredienti del ciclismo diciamo glorioso, d'altronde quelli al Tour non mancano mai. E' che - Gimondi ha acquisito una proprietà lessicale ottima in assoluto, straordinaria per il ciclista che tutti ancorano al "ciao mama", mai detto ma sempre tramandato - il Tour è già a priori una gara diversa da ogni altra, perché ti senti addosso la Francia della letteratura, della cultura, dell'arte, persino della gastronomia artistica. E inoltre quello fu un Tour tanto mio». Non doveva essere il suo Tour. Esordiente al professionismo, dopo avere vinto l'anno prima il troppo diverso Tour dell'Avvenire, morbida prova per dilettanti, era arrivato terzo al Giro d'Italia, finalmente vinto dal suo compagno di squadra nonché capitano Vittorio Adorni, uno specialista di quei secondi posti che nel ciclismo contano meno dell'ultimo, che almeno fa folklore. Adorni era partito per la Francia con l'obiettivo di imitare Coppi ed Anquetil, sin li i soli due, da che c'era il ciclismo, ad avere vinto Giro e Tour nello stesso anno. Ma si era fermato al nono giorno, sui Pirenei, con un terribile mal di pancia, e Gimondi, che già aveva indossato la maglia gialla, per soli quattro giorni, dopo la seconda tappa, grazie ad una fuga fortunata e permessagli anche dal suo relativo anonimato, proprio quel 30 giugno dell'addio del suo capita¬ no si era ritrovato in testa alla classifica quasi automaticamente, per crollo degli avversari più che per attacchi suoi. ((Avevo 23 anni scarsi, non avevo ancora finito di raccontare la storia del ragazzo che ero, del figlio della postina ciclista di Sedrina, e mi chiesero di vincere il Tour». Avvenne in una cena del 9 luglio, la vigilia della cronoscalata del Mont Revard, erano arrivati dall'Italia due dei fratelli Salvarani, gli sponsor, c'era il direttore tecnico Luciano Pezzi che aveva corso anche al Tour con Bartali e Coppi, si decise di tentare. Poulidor, l'uomo da battere La corsa sarebbe finita il 14 - data di chiusura allora fissa, la più gran festa di Francia - a Parigi, l'uomo da battere era Raymond Poulidor detto Poupou, altro eterno secondo, molto più amato dai francesi di Jacques Anquetil (assente quell'anno per calcolo ergonomico), che vinceva a cronometro una tappa e faceva sì che questo gli bastasse per prendersi tutto un Giro o un Tour, e che era troppo spudoratamente baciato dagli dèi della classe, dello stile, dell'eleganza. Bel Tour, pieno di gran ciclismo e di altre cose. La corsa entrò nella Spagna ancora di Franco e il patron Jacques Goddet ammonì alla radio di bordo il seguito a non portare i calzoncini corti né a stare a torso nudo, manco dentro le auto, per rispetto agli usi austeri di un po- polo. Barcellona accolse la corsa concorrenziando lo spettacolo già allora patetico dei fisarmonicisti francesi, gli «accordéonistes» campagnoli, e dei «motards» acrobatici con il concerto di quattro ragazzi arrivati lì da Liverpool passando per Amburgo, e già famosi, i Beatles. Gimondi anzi Jimondì sorrideva sempre e appariva serenissimo, quasi inossidabile. Scriveva su L'Equipe straordinari articoli su di lui Antoine Blondin, il grande scrittore perennemente in bolletta, per il quale il Tour significava pasti pagati, e anche con vini importanti. Blondin era ritenuto dai suoi colleghi un privilegiato: Albert Camus premio Nobel, che pure sognava di avere le rubriche di ciclismo e rugby su un giornale sportivo, non aveva mai avuto il Tour in offerta come invece lo aveva lui, specialista in racconti soavi di im¬ prese fachiristiche ed in pazzeschi giochi di parole, compitati in un francese finto plebeo, per pochi. I giornalisti italiani consumarono tutte le provviste di sensazionalismo per la corsa e per il suo protagonista, un paisà. C'era stato un fresco ricambio nella nostra stampa sportiva, pochi erano quelli che avevano cantato i Tour di Bartali e Coppi, non molti quelli che erano al seguito nel 1960 per la vittoria di Gastone Nencini, nata sulla tragedia del favorito Roger Rivière precipitato in un burrone, rotta la schiena, finito il ciclismo, presto finita anche la vita dopo tanta morfina per non soffrire e una rapina per mangiare. La letterarietà del Tour veniva tutta fuori facile anche per noi, enfin. La Francia sulla porta, come aveva scritto Tristan Bernard. La disponibilità di tanti riferimenti e di tante citazioni culturali offerte da un libro prezioso dell'organizzazione. Corda benedetta alla caviglia Niente che andava sciupato, contorni e dintorni della grande corsa, i giornali che chiedevano ai nostri inviati di scrivere sempre di più, intanto che Gimondi levitava e lievitava, andava leggero e come personaggio si faceva sempre più occupante della corsa. Restando però il semplice figlio della postina, e la sera ricevendo a plotoni, a battaglioni i giornalisti nel suo albergo, e raccontandosi nei dettagli - ma non aveva poi troppa vita dietro da sciorinare - sino che gli occhi non cascavano dal sonno: ai giornalisti, mica a lui. Offriva anche l'intimità di un suo rito, quel cingersi una caviglia, prima della corsa, con un tratto di corda benedetta, consegnatagli ad ogni inizio di stagione, da che gareggiava, da un monaco di un convento della sua valle. E se la corda si consumava, si rompeva, spariva, subito dalla valigia ne usciva un altro tratto, per un Tour il monaco aveva benedetto metri e metri di quella corda evidentemente miracolosa. La corda gli servì eccome sul Mont Revard, battuto Poulidor, maglia gialla ormai al sicuro. Era la seconda vittoria di tappa dopo quella di Rouen, la terza sarebbe arrivata l'ultimo giorno, a Parigi, prova a cronometro: in classifica generale Poulidor fini secondo staccato di 2'40", terzo un altro italiano, Gianni Motta, sosia del principe di Savoia. «La sera c'era una festa al Lido, o forse era il Moulin Rouge, obbligatorio andarci, ti invitava Jacques Goddet che adesso ha novant'anni, il patron che rientrato a Parigi smetteva la sahariana da direttore di corea e metteva lo smoking. Ricordo che mi feci prestare la giacca da mio fratello Pinuccio, salito a Parigi per abbracciarmi», Gimondi da allora non riuscì più a fare bene l'amore col Tour, per motivi assortiti. Però vinse tre Giri d'Italia, l'ultimo nel 1976, undici anni dopo, «ed è il ricordo ex aequo come grandezza, ero un vecchietto trentaquattrenne tutto tattica e saggezza», un Giro di Spagna, un campionato del mondo, due titoli italiani, una Parigi-Roubaix, una Parigi-Bruxelles, la MilanoSanremo, due Giri di Lombardia, tante gare a cronometro e in linea, insomma 135 corse in 14 anni di professionismo, e questo anche se dal 1968 il belga Eddy Morckx aveva cominciato la sua azione cannibalistica, che lo portò a papparsi quasi tutto il ciclismo negli stessi anni buoni di Gimondi. Nel ricordo sempre più prezioso del 1965 Gimondi adesso chiede di sistemare i nomi dei compagni: «Oltre ad Adorni, Ronchini e Minieri, Partesotti e Mazzacurati, Pambianco e Vendemmiati, e gli svizzeri Zoffel e Blanc. Nel ciclismo si dividono i premi fra tutta la squadra, massaggiatori compresi, ed è profondamente giusto». Secondo quanto aveva detto, anzi sancito, il giornalista francese Henri Desgrange Sventando la corsa nel 1903, il Tour fece ricco un povero velocemente, come pochi altri eventi al mondo. Gimondi voleva che la mamma smettesse di far bicicletta per portare la posta, ma lei decise di arrivare alla pensione. Tre anni dopo Felice sposò Tiziana, nipote di albergatori di Diano Marina, conosciuta negli inverni degli allenamenti e ritrovala ad applaudirlo sul Capo Berta, quando passava la Sanremo. L'anno dopo Felice Gimondi, celebre, prese il via nel Giro d'Italia che sarebbe andato a Molta (lui quinto): alla prima tappa, arrivo a Diano Marina, invitato da Sergio Zavoli sul palco del Processo raccontò una fase della corsa, disse che c'era stato «un grande casino», Zavoli gli rimproverò in diretta la parolaccia e gli tolse il video per un po' di giorni, nonostante che il campione si fosse subito scusato. Gian Paolo Ormezzano Una gara classica che mescola fatica e letteratura, arte e gastronomia // campione italiano ricorda il trionfo del 1965 bH Qui sopra, Gimondi nel Tour vittorioso del '65; a sinistra Adorni; qui sotto il campione con Poulidor e Motta; a destra in compagnia della moglie