IL ROMANZO, CHE CROCE! di Sandro Onofri

IL ROMANZO, CHE CROCE! IL ROMANZO, CHE CROCE! Un convegno a Venezia discute la «narrativa giovane» dopo la polemica tra scrittori e critici per i Premi HA ragione chi sostiene che la narrativa italiana della tornala '94-95 è debole, un drappello sparuto, esercizi di stile, postmoderno a sazietà, tirati in lungo con sospetto di vuoto? 0 chi dice: abbiamo finalmente scrittori capaci di reinventare la tradizione; che disegnano, da un «biade runner» non necessariamente funereo, «l'orizzonte del nostro tempo»? A radiografare con più equilibrio la situazione sono i pessimisti giurati del Campiello? 0 i critici tipo Cherchi e Bonura convinti «un po' per celia» ma non troppo che, nel campo, siamo attualmente i migliori del mondo? E come mai, allora, «sotto Tamaro niente» come titola un settimanale riferendosi alla lùt parade? Domande, coincidenza o necessità, che infuocano il convegno Boccaloni e B-52 sulla «nuova narrativa italiana» in corso proprio in queste ore a Venezia, alla sbarra gli under 40, un viaggio con gioco di parole dal Boccalone di Palandri considerato 25 anni fa «l'aurora» del nuovo romanzo al Venite venite B 52 di Sandro Veronesi (Feltrinelli '951, mentre Massimo Onofri con il suo pamphlet-saggio di Theoria, già in circolazione nel milieu, riaccende le polveri sugli Ingrati maestri. Un «discorso sulla critica da Croce ai contemporanei» che, riprendendo abilmente antiche querelle, manda nella polvere Contini e Serra, alle stelle Borgese, Debenedetti e soprattutto don Benedetto, purché risanato «dall'evirazione» adelphiana, mentre la condanna pesa sul Citati «premiato fattucchiere» dei suoi lettori nonché su Segre e Eco. Formalisti, strutturalisti e semiotici addio e nessuna pietà neppure (perché dovrebbe?) per il '63 e dintorni, sconfessione ribadita dal drappello di «nuovi» che Onofri cita in chiusura e che, a suo dispetto, qualcuno ha subito battezzato il «Gruppo '95». Li si potrebbe forse meglio definire «Gruppo Nuovi Argomenti», ma sarebbe ingeneroso quel sapore da conventicola, parrocchiale. Tanto più che uno dei celebrati è il «libero» Filippo La Porta, autore del recente studio sulla Nuova letteratura italiana (Bollati Boringhieri). Ecco, da quale parte sta La Porta, che al convegno di Venezia è relatore, nella valutazione dell'ultimo ciclo zodiacale della nostra narrativa? «I giurati del Campiello rivelano una certa schifiltosità snobistica che nel nostro Paese accomuna spesso critici e lettori. E' il solito bovarismo culturale per cui siamo pronti a inneggiare al più mediocre minimalista americano e a ignorare romanzi italiani solidissimi come quello della Di Lascia (non è sugli scudi allo Strega? ndr) o irrisolti ma di grande vitalità e in grado di registrare l'orrore del presente: penso a Sandro Onofri, Veronesi e anche Moresco. A me pare che la nostra narrativa goda di discreta salute, certo più di altre discipline, la politica, il giornalismo o la filosofia. Quanto alla critica, in alcuni libri, l'Affinati su Tolstoi, il Barenghi su Manzoni, Trevi sulla letteratura hi generale, Carbone su Savinio, Berardinelli sulla poesia moderna, ci si imbatte in una lingua italiana straordinariamente ricca e incisiva capace di aderire con amorevole precisione all'oggetto ma nello stesso tempo animata da una sottile inventiva». E Alfonso Berardinelli, ormai quasi un «padre della patria», uno dei pochi a uscire vittorioso dall'ecografia onofriana, come la pensa? «Le accuse che si fanno l'un l'altro narratori e critici sono anche giuste, ma forse è sbagliato il bersaglio. Entrambi hanno periodicamente l'impressione che regnino il silenzio, la mediocrità, l'irrilevanza, la disattenzione. Di chi la colpa? Il fatto è che soffriamo tutti di un certo declino di importanza pubblica della cultura scritta, non solo della letteratura. Il pubblico ci trascura. E' per questo forse che litighiamo. Però non mi sembra che nell'ultimo anno le cose siano andate malissimo. Per la critica sta emergendo una nuova ondata di talenti: Perrella, Barenghi, LeoneUi e parecchi altri. Di narrativa (certo se ne scrive un po' troppa) non avrei da fare che nomi ben conosciuti, Walter Siti, Voltolini, Di Lascia, Maggiani, Onofri, Veronesi, Cavazzoni, ma il problema ormai è un altro: non sappiamo bene come leg- l)a Palandri a Veronesi 25 anni di scoperte Allora perché si vende solo la Tamaro? Opinioni a confronto Ira diverse generazioni da Berardinelli e Mondo a Onofri e La Porla Alberto Arbasino. '/orna da Adelchi «Specchio delle mie brume» una farsa nell'Italia metà Anni 60 I^r ROMA I N po' di rughetta. Due i cetriolini. Un pomodorino. L'insalatina mista è bell'e pronta. Il | grembiulone da fruttivendolo Alberto ArbaJ sino se l'era messo pressappoco alla metà f degli Anni Sessanta per scrivere la sua farsa più esilarante, Specchio delle mie brame, che adesso Adelphi ripubblica (pp. 170, L. 26.000). In questa favolacela, cattiva e scherzosa, sprizzante comicità da tutti i pori, Arbasino rifaceva il verso, parodiandola, alla letteratura di tutti i tipi, alta e bassa, al cinema di Visconti e alla commedia all'italiana, a Totò e a Peppino, a Liala, Charlotte Bronte, Verga, D'Annunzio e Pirandello, come in una misticanza, insomma. Sembra infatti uscita da Tigre reale di Verga la baronessa Stefania, di nobilissima casata, che vive in un'atmosfera gattopardesca e invoca lo specchio: «Caro specchio delle mie brame e delle mie trame! Dimmi, orsù dimmi! Chi è la più bella del Reame delle due Sicilie?». Pallida, altera, fiera, delizioso cocktail di echi dannunziani e pirandelliani («Signore mie, pirandellianamente parlando... quanti dispiaceri!») i suoi colori si ravvivano improvvisamente e le labbra diventano «color rosa ponpon», le narici rosa bombon, l'«incarnato» color fucsia. Al suo fianco una bambinaccia che percorrerà le orme materne gere e metabolizzare tutte queste pagine». In più, mancano le «punte», i fuoriclasse. Berardinelli non trascura, comunque, «i due casi dell'anno: quello della Tamaro che ha un gran pubblico ma si è alienata la critica e quello di La Porta che è riuscito quasi miracolosamente a scrivere un ottimo libro di critica sulla nuova narrativa italiana, trovando una formula molto felice per trattare la materia in termini non solo strettamente letterari». La conclusione dell'autore di 11 critico senza mestiere è, tutto sommato, incoraggiante: «La scommessa dei nuovi scrittori è audace, specie in un Paese nel quale il romanzo è tradizionalmente debole, fatto di eccezioni: questi si buttano nella mischia con spericolatezza anche se non si riesce ancora a metterne a fuoco né il modello formale, né la vera forza narrativa». ma, a prima vista, si presenta come una «tettona e culona», vestita da educanda con l'apparecchietto per i denti e il fratellino Fulco, con i calzoni troppo stretti ed un enorme turgore, dietro la patta, davvero esagerato anche per i suoi quindici anni molto mal portati. E quando un ladro stupratore s'mtroduce nottetempo nella splendida Magione, tra argenterie, ceramiche e preziosi, la sventurata nobildonna dapprima resiste ma poi se la spassa facendosi mettere anche in posizioni «asimmetriche», come un monumento «dell'avanguardia sovietica». Se la godeva anche l'irriverente Arbasino quando metteva di fronte al suo specchio deformante tante teorie letterarie che, negli Anni Settanta, erano il verbo a cui gli scrit¬ I)a sinistra Sandro Veronesi, Lorenzo Mondo .1 destra Benedetto ( 'roce bri di narrativa che esigerebbero lettori, ormai inesistenti, a tempo pieno. Sembra che gli editori vogliano forzare, a mattonate di libri, la barriera di sostanziale indifferenza del grande pubblico. Ma questi romanzi quanto pesano, quanto contano? Sulle affermazioni di alcuni giurati del Campiello che si limitavano, fuori da ogni sanzione epocale, a osservare che le opportunità di scelta offerte quest'anno erano inferiori a quelle dell'anno prima, è nato un pretestuosissimo chiacchiericcio. Con reazioni oscillanti tra il dispetto narcisistico e le banalità travestite da acutezze metodologiche. Personalmente ritengo che esistano nel panorama della più recente narrativa figure rispettabilissime, in quantità impensabili fino a qualche decennio fa; ma che non abbiano ancora dato piena misura di sé (penso tra gli altri a Baricco, Lodoli, Maggiani...). Mancano le forti emergenze, ma non è detto che per il futuro della nostra narrativa questo sia un male. Dia¬ del secondo romanzo Colpa di nessuno (Theoria), confessa di vivere in frustrante solitudine dentro il «circo della promozione». Parliamoci e non solo per pochi minuti a Venezia o altrove, dicono, ciascuno a suo modo. Ma per La Porta «questi appelli avevano senso 15 anni fa; oggi mi sembra che tutti gli scrittori abbiano scoperto la realtà e ne riempiano quasi voluttuosamente i propri libri. Questo però non vuol dire molto. Per lo scrittore la posta è inseguire la realtà invisibile; esplorare, leopardianamente, il proprio petto. Parecchi hanno imparato a farlo. Vadano avanti. Stabilito che la società letteraria, o il suo simulacro, inclina sempre di più alla non comunicazione, alle piccole mafie, alle lobbies, l'unico modo per infrangere il muro di sordità è quello di sempre: scrivere buoni libri...». E, già. Sembrerebbe una tautologia. Ma il nodo è poi proprio questo. «Una premessa - interviene Lorenzo Mondo -, si pubblicano troppi li¬ mogli, e diamoci tempo». «Infastidiscono piuttosto - Mondo non è pessimista, è allergico a tutto ciò che suona falso - le querule rivendicazioni, le proteste per la distrazione o prevenzione o insipienza dei critici. Muovono al sorriso l'invenzione di giovani improbabili maestri, i datalissimi richiami alle iniezioni di realtà, l'appello a patti solidaristici, scrittori-critici accomunati dal pathos generazionale (la troppa fiducia che si affida ahimè al colore della cronaca, ai gerghi d'annata). Quando ogni scrittore degno di questo nome, che voglia durare più di una stagione, sa che deve correre il rischio della solitudine e del fraintendimento, che non esiste precettistica utile a scrivere un buon libro, che tutte le occasioni, le deviazioni, i risentimenti, i ticchi sono utili se servono a dare una scrittura nuova, una immagine conoscitiva di sé e del mondo». Quand'anche apprezzati, i nostri romanzieri si lamentano, lanciano Sos. Vincenzo Cerami si sente «un dormiente)' e «c'è da chiedersi se esistiamo ancora... assenti dal mondo civile, incapaci di raccontare il presente, e ci domandiamo quale relazione tutto ciò abbia con la fine dell'impegno culturale della sinistra...». Sandro Onofri, fresco

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