«lo Peres, il mago della pace»

«lo Peres, il mago della pace» LO STRATEGA DEL NUOVO MEDIO ORIENTE «lo Peres, il mago della pace» «Con Arafat è fatta, con Assad è vicina» SGERUSALEMME HIMON Peros, Premio Nobel por la Pace, ministro degli Esteri israeliano, ex capo di Stato, l'uomo che ha sconfitto nell'85 un'inflazione al 445 per cento, che ordinò il ritiro dell'esercito israeliano dal Libano, che ha avviato con Rabin un rivoluzionario procosso di pace e lo sta portando a termine. «Non perdere mai di vista il fine, non farsi mai prendere dalla logica del potere» è la sua ricetta. La storia lo ha già incoronato fra i benemeriti della nostra epoca. Ora il processo da lui avviato passa uno fra i suoi momenti più difficili. In questo momento lei ha due tavoli negoziali aperti, uno più importante dell'altro: quello siriano e quello palestinese. Talvolta sembra che quello siriano rischi di offuscare quello palestinese. Ma per lei, quale trattativa è il primo pensiero della mattina? «Senza ombra di dubbio, il negoziato con i palestinesi». Perché? «Perché qui la situazione è finalmente quasi conclusa. Siamo vicini al secondo accordo. E' fatta». Lei vuol dire che al primo di luglio, come promesso, saranno fissate sia la data delle elezioni nei territori occupati sia il ritiro dell'esercito israeliano? «Può darsi che ci sia una settimana o due di ritardo. Ma non è corto una catastrofe. Grossomodo, i tempi verranno rispettati... L'importante è definirò i contenuti in modo che in seguito divengano un successo politico. Com'è accaduto a Gaza». Gaza crea ancora molta angoscia e paura. «Ma da uno stato di depressione storica, si sta sviluppando un umore pieno di speranza. Sono rimasto molto colpito, proprio in questi giorni, dal paesaggio di Gaza, cosi cambiato: più di cento nuovi edifici ne ridisegnano la linea all'orizzonte. Ci sono caffè pieni di gente, buoni ristoranti. Prima dell'accordo di Oslo, i corvi che fissavano Gaza a un pozzo di miseria, una fonte perenne di terrorismo, erano innumerevoli. La vedevano come un inferno senza speranza. Invece la speranza è qui, l'ho vista coi miei occhi, anche se ancora serve molto impegno economico». Gli aiuti economici, è questo è valido per tutta la storia del Terzo Mondo, non sono mai stati decisivi per determinare in pieno il futuro politico. Perché lei ne parla così spesso, perché crede che cambino a fondo il destino palestinese? «Guardiamolo alla rovescia: senza l'economia non si può costruire l'Autorità palestinese e l'economia è sempre più lenta dell'amministrazione. Adesso, pensi, è passato solo un anno: un tempo politico brevissimo. Eppure c'è stato un salto di spe¬ ranza e di forza dell'Autorità palestinese che oggi riesce a controllare molto meglio il territorio. Del resto, di che cosa fidarsi? Della storia passata o del futuro? Delle pastoie della tradizione o dello sviluppo?». Fra poco inizierà il ritiro delle truppe. Che ne sarà dei settler? «Non ci sarà nessuna guerra civile. Potranno restare dove sono. Il problema non è la loro dislocazione geografica, ma piuttosto, in generale, i rapporti fra palestinesi ed ebrei. Con i nuovi rapporti, si creeranno nuove condizioni di vita...». Lei sottovaluta l'aggressività esistente. «Non la sottovaluto, mi attengo all'esistente. Da noi vivono ottocentomila arabi israeliani, in pace. Nel West Bank vivranno 220 mila ebrei contro un milione e 250 mila palestinesi. I rapporti cambieranno. Per sopravvivere bisogna togliere il deserto dalla terra, il sale dal mare, la violenza dagli uomini». Il popolo palestinese, secondo lei, è desideroso di sviluppare una democrazia? Sarebbe una novità straordinaria nel mondo arabo! E Arafat non è piuttosto un ostacolo su questa strada? «Arafat è colui che prende le decisioni, che fa le scelte ultime. E' il leader prescelto dal suo popolo. Comunque le elezioni diranno la loro». E Arafat vincerà? Molti dicono che questo non è positivo per il futuro palestinese. «Non bisogna mai dimenticare che Arafat è il primo leader palestinese che ha abbandonato il terrorismo per un dialogo di pace». Quando ci sarà lo Stato palestinese? «Parlerei piuttosto, in futuro, di una confederazione giordanopalestinese». Veramente Arafat parla sempre e soltanto di uno Stato palestinese! «Dopo 5 soli minuti che esisterà uno Stato palestinese, sarà già in piedi la discussione per creare una confederazione giordano-palestinese». Passiamo al secondo tavolo: la Siria. Prima ancora dell'attuale incontro di Washington fra generali lei ha dichiarato che il Golan è territorio siriano. Non è uno strano modo di giocare, in una trattativa? «Secondo lei, Assad non sapeva già in anticipo che Begin ha ceduto all'Egitto tutto il Sinai in cambio della pace? Non ha mai sentito dire, Assad, che dopo il 1967 dichiarammo cho eravamo pronti a ritirarci da tutti i terri¬ tori occupati in cambio della pace? Il Presidente siriano sa benissimo come stanno lo cose. Magari, mi sono solo sforzato di renderlo più evidenti, più chiare». La vostra opposizione è all'attacco: dice che il Golan è vitale per Israele. «La nostra opposizione è bravissima a negoziare con se stessa, a fare la pace senza arabi». L'Iran è il maggior esportatore di terrorismo islamico, il maggiore, oggi, fra i nemici giurati di Israele. Perché Assad gli ha mandato il suo vice in visita ufficiale proprio alla vigilia degli incontri? «Assad giuoca con delle carte piuttosto ostiche al nostro modo di pensare. Tuttavia è con lui, o proprio con lui, che dobbiamo trattare. Non è prevedibile quanto sarà lunga la strada». Quanto è grande il pericolo del fondamentalismo islamico? «E' immenso. Stiamo passando da una fase in cui c'erano dei nemici a quella in cui esiste un problema. Ed è un problema universale, investe tutto il mondo. La minaccia è duplice: economica e atomica. Se l'Occidente non lo capisse, lo sottovalutasse, l'orrore sarebbe mortalo. Como quello che i liberali, che in genere desiderano guardare la faccia buona delle coso, fecero al tempo dell'ascesa di Hitler al potere». Come si batte un terrorista suicida che ha già deciso di morire? «Lui, sì, ha deciso, ma non i suoi genitori: e neppure lui desidera che ossi muoiano. Bisogna tentare tutte le strade, quelle della repressione, ma anche quello dell'aiuto sociale a un mondo povero e quindi più ricattabile. Ed anche quella del rapporto fra le tre religioni cho devono spogliare la loro spiritualità da qualsiasi rivendicazione territoriale e politica». E' importante la visita del nostro ministro degli Esteri Susanna Agnelli il 4 di luglio? «Certamente lo è: l'Italia può essere di grande aiuto al processo di pace. Può aiutarci a realizzare infrastrutture, viadotti, canali. Inoltre ho avuto recenti contatti con l'Olivetti (De Benedetti è un mio buon amico) per realizzare un mio grande sogno, la computerizzazione del Medio Oriente. Con la signora Agnelli ho anche un'amicizia personale: a Roma, durante una mia visita, mi offrì uno splendido incontro con artisti italiani che mi donò grande piacere». Perché ha ricevuto An- dreotti? «Perché me lo ha chiesto. Nelle democrazie un uomo sotto processo non è un uomo già condannato. Lo conosco da quando, negli Anni Cinquanta, da sottosegretario agli Esteri, compì gesti amichevoli che non posso dimenticare. Non si può accettare un personaggio perché è al vertice, e più tardi voltargli la schiena». Fiamma Nirenstein «Di Gaza tutti dicevano che era un inferno senza speranza adesso è piena di attività e di fiducia. Per battere i terroristi non basta la repressione, ci vuole anche l'aiuto a un mondo povero» inferi Il ministro degli Esteri Peres una veduta di Gaza capitale dello Stato palestinese e il dittatore siriano Assad. Sopra una immagine del corteo di militanti di Hamas a Khan Yunis dove gli estremisti islamici hanno lanciato nuove minacce di attentati terroristici