D'Alema il grande babau

D'Alema, il grande babau D'Alema, il grande babau E'guerra fredda con i giornalisti LA STAMPA E IL PDS GROMA HIGNI, baffi e puzza sotto al naso. Mercato nero e iene dattilografe, maionese e immondizia, Pulcinella e Lorella (Cuccarmi). D'Aloma, quindi, e l'informazione: la saga prosegue e animosamente, tanto per cambiare, si pronota un posticino per i mesi e magari anche per gli anni a venire. Con il contributo quasi determinante degli organismi rappresentativi dei giornalisti, è rivampata infatti nella giornata dì ieri assegnando definitivamente al segretario del pds - che è pure un collega - l'alloro del leader più cattivo con chi scrive sui giornali. Il titolo, c'è da dire, era vacante dopo l'esilio di Craxi, la fuoriuscita di De Mita e l'improvvida mosceria di Bossi, che s'era messo in lista compilando di liste di proscrizione. Per cui adesso i giornalisti politici hanno di nuovo il loro babau, mentre D'Alema, può legittimamente cavalcare la tigre di chi vede nello strapotere dei media e nella loro attualo degenerazione un fatto anomalo e pericoloso assai. Certo che l'altro ieri, alla presentazione di un libro, ci 6 andato giù pesante. Messa da parte per una mezzoretta quell'aria abituale di desolata sopportazione, D'Alema non ha solo auspicato, come già tanti altri, la chiusura del Transatlantico, ma ha pronunciato una sprezzante invettiva su un giornalismo «superficiale», «approssimativo», «incolto», «teledipendente», «tendente alla narrativa fantastica». Contraddetto da Montana ha quindi rivendicato la sua «puzza sotto il naso», conformando di averla da almeno vent'anni. E così ieri è insorto con meravigliato sdegno Bruno Tucci (Ordine di Roma), per il quale tale annosa puzza riguarda semmai l'eventuale otorino che avrebbe in cura D'Alema. E poi, con insidiosa pacatezza, Enzo Jacopino, presidente della Associazione Stampa Parlamentare, che ha distinto tra un D'Alema pubblico, «freddo 0 scostante», e un D'Aloma privato «cordiale e autoironico». E tuttavia né i sospetti di doppiezza psicologica e funzionalo, né le posizioni più d'alettiche del ncoprosidontc dell'Ordine Petrina (che ha chiesto di incontrare il segretario del pds), o neppure il suo spregevole giudizio sullo stato del giornalismo paiono esaurire una querelle tanto infausta quanto, in fondo, prevedibile. In altre parole, prima o poi sarebbe scoppiata. Con estrema fatica, infatti, per temperamento e per tradizione di partito, D'Alema riesco a tollerare 1 giornalisti. Che tale sforzo non sia talvolta del tutto ingiustificato si può anche capire, ma per chi fa politica si tratta pur sempre di uno sforzo dovuto (e poi non riguarda solo lui). Il personaggio, comunque, è latto così. Appena tornato a Roma dalla Puglia, quando pure il Comitato centrale si riuniva in gran segreto, esordì denunciando un vero e proprio «mercato nero» dell'informazione che dava spazio solo alla dissi denza. Dopo la disfatta elettorale del 1987 rimase famoso, nella sua burbera freddezza, il seguente commento: «Sono un militante del partito comunista e non ho nulla da dichiarare». L'anno seguente, divenuto direttore dcll'I/nitù, riesumò Sartre e le sue «iene dattilografe» (altra lectio: «iene di regime») per qualificare i cronisti. E contribuì a chiudere l'insorto satirico Tango che, incurante delle pregresse idiosincrasie dalcmiane («Nessuno è obbligato a divertirsi quando è preso in giro. Anzi, personalmente m'incazzo») l'aveva sposso chiamato «Minimo». La sensazione è che questo suo patimento anti-giornalistico spinga D'Alema a ricercare il corpo a corpo, so occorre pure giudiziario. A Forattini, che lo conside¬ ra «il peggior censore che ci sia», ha dato querela nel 1991, ottenendo un risarcimento di 120 milioni, per una vignetta che lo raffigurava come una donna di strada. A Vertono ha risposto, con una certa volgarità, che l'anticomunismo rappresentava per lui anche «una fonte di sostentamento». A Gervaso, adeguandosi per l'occasione al clima del Funari show, ha replicato che aveva la «maionese» nella testa. AW'Indipendente, infine, che s'ora pormesso di sollevare un caso sulla sua abitazione privata (questione invero complicata e nemmeno troppo scandalosa) ha comunque spiegato che lui, D'Alema, non si era mai occupato di «monnezza». Non che questa latente intolleranza nei confronti dei giornalisti, dello loro domande, dei loro prodotti sia proprio estranea a certi stilemi del costume comunista. Anche Berlinguer, dotto «il sardomuto», non amava lo semplificazioni e una volta, di fronte alle insistenze del corrispondente del New York Titnes che a un certo punto gli chiese «almeno l'età», ebbe il cuore di rispondere: «Credo che, rivolgendosi all'ufficio stampa, ella potrà avere una mia biografia comprensiva dei dati ] anagrafici che desidera conoscere». Il punto è che l'atteggiamoli to di D'Alema non ò minimamente paragonabile né con quello di Natta, che nel piccolo mondo antico di Montecitorio continuava a trattare i cronisti con signorile cortesia. Né, tantomeno, con l'amorc-odio, il classico ncc tecum nec sine te vivere possum che ha caratterizzato la segreteria di Occhetto, una lunga e a tratti anche catastrofica sequela di foto capalbiesi «rubate» per finta, voci dal sen fuggite, smentito e contro-ritrattazione. Più misurato del suo predecessore, D'Alema è - o suona - irrimediabilmente più spocchioso. E se pure tiene conto dell'obiettivo incanaglimento dei media, se puro è all'altezza della loro nefasta vocazione a sostituirsi ai politici, se pure ha buon gioco a sostenere che «un rutto alla buvette conta più di un terremoto in Colombia», c'ò anche da dire che il tono con cui esprime questa sua altezzosissima superiorità, la battutina boriosa, il ghignotto pedagogico quasi costringono chi la pensa come lui a difendere la funzione e il ruolo della stampa. A uno così sicuro e privo di dubbi - viene spontaneo di palliare - gli può far anche bone alla salute. Oltretutto, in questo teatrino iper-semplificato, pure D'Alema ha i suoi «peccatucci». Veniali, certo, ma astutamente finalizzati, si direbbe, all'autocostruzione del personaggio. Il gioco sui balletti, ad esempio me li taglio, non me li taglio - o l'epiteto di «Pulcinella» affibbiato ad Occhetto, la risposta se preferisse Lorella Cuccarini o Sabrina Salerno (vinse Lorella), la recita di Baudelaire di fronte a Carmen Llera (che giustamente l'ha scritto), fino a un recente servizio fotografico realizzato da Elisabetta Catalano (la stossa elio immortalò i baci occhettiani). Son cose che capitano. Come quelle telefonate amichevolmente aspre ai giornali. Con i direttori clic, dopo essersi sorbiti qualche minuto di contumelie e riallacciato faticosamente il dialogo, gli chiedono so possono attribuirgli quanto ha detto. E lui: «No, mettetelo giù come so fossero idee vostre. Cosi almeno per una volta fate bella figura». Filippo Ceccarelli L'ironia del leader: è vero ho la puzza sotto il naso : a* 'A ■*U Achille Occhetto A destra Enrico Berlinguer A sinistra il "transatlantico» di Montecitorio luogo d'incontro tra deputati e giornalisti Lorella Cuccarini. Una volta D'Alema ha risposto a una domanda su di lei Il leader del pds Massimo D'Alema E Berlinguer dopo le elezioni dell'87 disse: sono un militante comunista, nulla da dichiarare

Luoghi citati: Colombia, New York, Puglia, Roma, Vertono