Il testamento di un genio giardiniere

Il testamento di un genio giardiniere Ventimiglia, il premio Hanbury al grande libro lasciato da Russel Page Il testamento di un genio giardiniere Dall'amore per una primula alle architetture verdi SVENTIMIGLIA I faceva chiamare semplicemente gardener, «giardiniere», termine inglese che designa chi i giardini li fa con le proprie mani, a partire dal disegno, e senza paura di sporcarsi con la terra. Ma Russel Page era molto di più: un genio del verde, un eclettico dotato di grande cultura storica che, nella più classica tradizione inglese, univa l'amore per la pittura a quello per la botanica. Page lavorò nei giardini più belli del mondo, in decine di Paesi: dalla Francia all'Inghilterra, dagli Stati Uniti al Venezuela, dalla Persia all'Egitto. Non seguì alcun corso di architettura o di giardinaggio, ma la sua tecnica superba nel comporre prati, foglie, cortecce ha fatto scuola. Il prezioso testamento artistico di Russel Page è L'educa¬ zione di un giardiniere, insieme biografia, manuale per appassionati e saggio sulla storia del giardino dalla fine dell'Ottocento ai giorni nostri. Ieri alla Mortola l'opera ha ricevuto il Premio Hanbury, ideato dal Grinzane Cavour e dalla Regione Liguria per promuovere la cultura dei giardini e del paesaggio. Russel Page è morto nell'85, il Premio è stato quindi consegnato a Benedetto Camerana, che ha curato l'introduzione per la splendida edizione di Umberto Allemandi. La giuria, presieduta da Marella Agnelli e composta tra gli altri da Francesco Biamonti, Paola Profumo, Giulio Einaudi, Nico Orengo, Paolo Peyrone, Ippolito Pizzetti e Giuliano Scrìa, coordinatore del Premio, ha premiato anche Grazia Marchiano [Sugli orienti del pensiero. La natura illumi- nata e la sua estetica, Rubettino editore) e Francesca Mazzino [Un paradiso terrestre. I Giardini Hanbury alla Mortola, Sagep editrice). Nel pomeriggio la villa dei Giardini botanici Hanbury ha ospitato un convegno dedicato al «Giardino del Duemila»: tra gli altri sono intervenuti Paolo Mauri, Annalisa Maniglio Calcagno e Elena Accati Garibaldi, che con Marco Devecchi ha curato Il giardino di villa in Italia nei secoli XVII e XIX (Ace International), atti del convegno, or- ganizzato dal Corso di perfezionamento in «Parchi, giardini e aree verdi» della Facoltà di Agraria di Torino, recentementee pubblicati con la collaborazione di Cnr, Facoltà di Agraria e Grinzane Cavour. L'amore di Page per le piante risale all'adolescenza: la sua descrizione dell'innamoramento per una primula vista a una fiera locale - spiega nell'introduzione Benedetto Camerana ricorda «l'ardore di un teenager per una giovane attricetta di telefilm». Sulle orme di Wil¬ liam Robinson e di Gertrude Jekyll, «l'architetto del verde» svilupperà con umiltà una tecnica perfetta: «Non ricordo un solo giardino dal quale non abbia imparato qualcosa, e assai di rado m'è capitato di incontrare un giardiniere che non mi sia stato di qualche aiuto». «Ho sempre cercato - scrive ancora - di dare armonia ai miei giardini, di mettere in rapporto l'uomo e l'ambiente naturale, la casa e il paesaggio, la pianta e il suo terreno». Page venne in Italia per la prima volta nel '52, a Torino, quando il conte Theo Rossi di Montelera gli chiese di ridisegnare il giardino del Carpeneto, grande villa settecentesca nella campagna a Sud della città. Nel '54 lavorò a Villar Perosa per Giovanni Agnelli, nel '56 a villa Silvio Pellico di Moncalieri (per gli Ajmone Marsali), quindi nei pressi di Roma e nel Sud dell'Italia. Page amava soprattutto i giardini «a stanze», come quello ideato dal maggiore americano Lawrence Johnstone a Hidcote Manor, nel Gloucestershire: una sequenza di giardini tematici circondati da alte siepi, straordinari microcosmi all'interno delle quali poteva controllare ogni singolo dettaglio di forma e di colore. Il genio dei giardini coltivava gelosamente l'ideale dell'armonia e per sé sognava un giardino «piccolo e semplice», nel quale far risaltare la potenza della natura: «Metterei la gemma di un bulbo di bucaneve o di scilla, sottolineando la forza e l'energia che la pianta genera per farsi strada attraverso la terra gelata». Cario Grande