A Gaza dove il mare spegne l'inferno di Fiamma Nirenstein

C A Gaia, dove il mare spegne l'inferno Dopo la pace, un parco giochi sulla piazza dell'Intifada NEL PAESE DI ARAFAT SGAZA I vede. La pace si vede balenare: anche l'inferno, dunque, può farcela; anche Gaza può uscire, per ora a chiazze, dalla sua condizione di epitome del male, della miseria, della violenza. Può arrivare ad assomigliare a Tunisi, o a qualunque altra capitale araba, col suo quartiere collinare ricco di ville ventose, benedette dal mare e dalle palme. E con i suoi larghi pozzi di fame rabbiosa, invincibile nei millenni. A Rimai, il quartiere alto sito intorno al Parlamento, palestinese, in fondo a quella lunga piazza che tutto il mondo ha visto alla televisione quando Arafat giunse a prender possesso del primo lembo di terra palestinese, una lunga striscia di polvere è stata attrezzata con altalene, scivoli, attrezzi da gioco. Sono fatti di plastica ojlorata, quanto strani in questo contesto. E' la prima volta che nella storia di Gaza si vede qualcosa di simile. Sotto il sole Muhammed Adel Karim Elyazeji, 12 anni, famiglia celebre perché importa a Gaza la Pepsi-Cola, stringe i suoi occhi lunghi e verdi, che illuminano un volto da antico fanciullo ateniese. Salta sugli scivoli con una banda che fino a poco tempo fa usciva di casa la mattina per andare a tirare le pietre dell'Intifada. Una gloria luminosa nel suo passato: «A dieci anni mi hanno arrestato, mi hanno anche tirato qualche spintone, io ho pianto, perché ero piccolo; ma mio cugino che aveva 14 anni invece no, lui è stato trattenuto dagli israeliani» Un rimpianto: «La pace è bella, mi fa sentire più sicuro. Ma era bella anche l'azione - un coro di "sì" luminosamente sinceri parte da tutti i ragazzini intorno, ndr -. La macchina passava, lanciavi il sasso, il sasso rompeva il vetro, il soldato sanguinava». Come si spendono oggi le energie che due anni fa i ragazzi dedicavano all'Intifada? I piccoli scivolano giù sulla plastica colorata, la mattina vanno a scuola, cosa, anche questa, che per tanto tempo non si è fatta. Ma i più grandi vanno al mare. Il mare, dove Gaza comincia e finisce, è l'autentico specchio della nuova situazione di pace. La striscia di sabbia è oggi piena di vita. Lungo la spiaggia ormai ci sono molte costruzioni in I, corso, soprattutto ristoranti e alberghi di lusso, rosa con colonne bianche, ben ideati, con archi prospicienti il mare, dai prezzi intoccabili per la maggior parte della popolazione. Il mare si popola ormai a tutte le ore, fatto inusitato, di bagnanti spensierati. I maschi entrano nell'acqua tenendosi per mano. Le ragazze sono rare. Da dentro le verande ad aria condizionata occhieggia la borghesia di Gaza e guarda la spiaggia affollata e rumoreggiante di rock'n'roll arabo. Le mamme di buona famiglia sono vestite con il chador; le bambine spumeggiano di tulle e fiocchi, i maschi, grandi e piccini sono abbigliati all'occidentale, in stile vagamente britannico-coloniale, pantaloni a quadretti con le pence. Al ristorante La Mirage, aperto da una settimana, va anche Arafat con i suoi a mangiare il pesce fresco. Il mare si frange a pochi metri, dentro alla vetrata l'aria condizionata preserva dal caldo terribile. La moglie di Arafat resta a casa, come tutte le mogli e le ragazze in generale. Un pranzo per quattro costa circa 200 shekel, 100 mila lire, un prezzo impensabile per la gente di Gaza. C'è un cameriere impeccabile, Fuad Amar che ha lavorato anni a Tel Aviv e ora finalmente ha trovato lavoro a casa sua: anche questo è molto nuovo. Parla del nuovo lusso con un sorriso di soddisfazione: «Qui la gente viene a tutte le ore. La notte si possono persino vedere le ragazze che mangiano il gelato e sentono la musica, vestite all'occidentale, protette dalle mura del ristorante rispetto alla spiaggia piena di ragazzi. Sono in genere ragazze ricche, ragazze del quartiere di Rimai, dove abita anche Arafat. A volte - Fuad qui stringe amaro il volto in una smorfia fuori d'ordinanza per un cameriere di lusso - mi chiedo come si sia potuto costruire prima un ristorante così, piuttosto che metter le mani nei campi profughi che sono a dieci metri, dico a dieci metri da qui, dove manca anche il cibo». Forse le ragazze della borghesia vestono all'occidentale (noi ne abbiamo viste per strada ben poche) ma le intellettuali, certamente, no: tutta coperta, alla musulmana, Xifach El Gusin, 27 anni, è una delle poetesse più .famose del mondo arabo. E' una bellezza da miniatura. La sua presenza a Gaza è un autentico prodotto della pace, come quella di Fuad: è tornata dalla Giordania, dove viveva da rifugiata con la sua famiglia, nel '93. Ha subito incontrato il futuro marito, un poliziotto dell'Autonomia Palestinese che era a sua volta appena torneilo dall'esilio nel Kuwait. «E' stato il primo poliziotto con l'uniforme palestinese che io abbia mai visto. Mi sono innamorata - dice Kifach con un sorriso bello, ma un po' tragico e avvelenato -, innamorata di ciò che era e anche di ciq che rappresentava, il nostro matrimonio è certamente un frutto di Madrid e di Oslo. Adesso aspetto il mio primo figlio. Non l'avrei voluto concepire se non qui, in Palestina; se non ora, in tempo di speranza». Per gli intellettuali di Gaza la pace ha significato moltissimo: molti sono tornati a Gaza dall'Egitto, come Muhamed Hassib Kadi, o da Tunisi, come Ahmed Dahbur: ((Adesso - racconta la poetessa c'incontriamo con regolarità per leggerci reciprocamente lo poesie, per discutere la funzione degli intellettuali in tempo di pace. L'appuntamento fisso è il sabato sera. Prima a questo appuntamento giungevano in pochi, e trafelati; chi era finito in prigione, chi era ferito, chi era stato picchiato. Adesso ci siamo sempre tutti quanti. E pare che stia per tornare anche il più grande, Mahmoud Darwish». Al Centro di salute mentale quasi miracolosamente creato cinque anni fa da un gruppo di psicoterapeuti di frontiera il dottor Ahmed Abu Tawahina ricorda con un sorriso gli inizi: «Nessuno veniva a trovarci. Andavamo per strada allora, a spiegare alla gente che la sua malattia si chiamava depressione, che i sintomi derivati dalla sofferenza dell'Intifada erano identici a quelli che noi conoscevamo dai libri. Glielo spiegavamo e glielo spiegavamo ancora finché non li convincevamo a venire in terapia. Oggi il Centro raccoglie i cocci di una società traumatizzata: i bambini durante la guerra con gli israeliani hanno percepito la debolezza dei loro adulti, sono andati loro slessi a combattere senza difesa per la strada, hanno visto cadere la protezione dei grandi, si sono cercati da soli una scala di valori selvaggia e assolutamente primaria, priva dell'autorità paterna. Hanno avuto tutti quanti un prigioniero in famiglia, un morto, un picchiato. Oggi alla vecchia depressione per l'occupazione israeliana si aggiunge un nuovo sintomo: il nemi- co è diventato invisibile, e questa società patriarcale, basata sulla coesione, sulla famiglia e le sue propaggini tribali scopre che i guai sono al suo interno. Ecco una tipica storia di un paziente: preso prigioniero dagli israeliani e interrogato con pesantezza, non ha parlato. Sentendosi un eroe, è tornato in cella dai suoi compagni e nell'ebbrezza del suo ego carico di vigore, ha spiattellato loro tutto quanto. Si è fidato, per poi scoprire che i suoi compagni di cella erano spie del nemico. Da allora quest'uomo è in terapia familiare, perché non riesce a rivolger la parola neppure alla moglie. Si è rotto dentro, Ó suo nemico è la sua stessa società, se stesso». Tawahina spiega però che c'è anche qualcos'altro di molto importante: «Finalmente, invece di immaginare che tutti i problemi siano riposti altrove, la gente si sofferma a guardarsi dentro: i problemi amorosi, domestici, le fobie, le ossessioni, sono diventate finalmente nostre. Le nevrosi sono vere nevrosi e non denunce politiche. Per la prima volta le vediamo portate in terapia. E poi c'è un'altra novità: la gente sogna il mare, i bambini ne parlano spesso. Prima, qui a Gaza, che è tutta stesa su una spiaggia, guardavamo solo verso terra, verso Israele». Sulla via di uscita da Gaza, in mezzo al mercato, il suk, teatro di tante tragedie israelo-palestinesi, è aperta di bel nuovo la nuova filiale dell'Arab Bank, con tanto di marmi e di aria condizionata. Il suo vicedirettore Azzam Shawwa, 32 anni, appartiene a una delle migliori famiglie di Gaza. La banca è affollata. Shawwa testimonia un formicolio di operazioni per un giro di 100 milioni di dollari in pochi mesi, da quando la banca è stata aperta. E soprattutto; all'angolo dove si sparava ogni giorno, un Bancomat, il primo nella storia di Gaza, distribuirà danaro in tre valute: dinaro giordano, shekel israeliano, dollaro americano. E' un Bancomat complicatissimo. Per installarlo è venuto un esperto da Tel Aviv. Fiamma Nirenstein