TERRORISTI NON PENTITI FIGLI SENZA PADRE di Alberto Papuzzi

TERRORISTI NON PENTITI FIGLI SENZA PADRE TERRORISTI NON PENTITI FIGLI SENZA PADRE La scelta della lotta armata, come «autodifesa» IN copertina la famosa fotografia della P38. L'angosciosa istantanea, scattata in un viale di Milano il 5 maggio '77, che aprì gli occhi sulla violenza armata: due giovani scappano, i volti nascosti dai foulard, uno guardando di sbieco verso il fotoreporter, mentre un terzo è ripreso di spalle, le gambe larghe per stabilizzare bene il corpo, le braccia tese per sparare l'ultimo colpo. Una scena di quotidiana guerriglia urbana, diciotto anni fa, rimossa dalla coscienza collettiva e dalla storia, ma restituita all'attualità, con il suo carico di problemi irrisolti, da un libro insieme agghiacciante e appassionante: Storie di lotta armata, colloqui con terroristi di sinistra, a cura dei sociologi Raimondo Catanzaro e Luigi Manconi. «Era difficile fare politica in termini normali». Questa fredda spiegazione fornita da Antonio Savasta suona terribile se si pensa a cosa è stato il terrorismo, per dieci anni della nostra vita, con l'escalation della violenza, con la sfida allo Stato, con tante vite spezzate di giovani. Eppure è la spiegazione più vera: è un'idea totale ed estrema della politica che determina ogni volta la fuoriuscita dalla legalità e dalla normalità e che giustifica soggettivamente il ricorso alle armi, le rapine, gli omicidi. Questo è il punto fondamentale delle otto lunghe interviste, raccolte nel volume, con Enrico Baglioni, Alfredo Buonavita, Paolo Lapponi, Antonio Savasta, e altri quattro compagni indicati solo col nome: Piero, Claudia, Marco, Raffaele. Nella breve introduzione Catanzaro e Manconi presentano il libro come una selezione di storie di vita. In realtà il libro è molto di più: non soltanto entriamo dentro il vissuto di questi militanti della lotta armata, nelle loro famiglie, tra i loro amici, nelle loro scuole, nella loro intimità, nella loro angoscia, ma ascoltiamo la loro ricostruzione dei fatti, entrando nella loro testa, afferrando la loro identità, così da capire le ragioni di scelte fallimentari. Naturalmente ognuno parla per sé. Ogni storia è quella storia. Né i curatori sovrappongono proprie interpretazioni. I racconti degli otto intervistati non sono rifatti o romanzati. Infatti ascoltiamo queste voci, come se fossimo lì, con le pause, le incertezze, gli andirivieni, le sospensioni, che contraddistinguono il parlato. Non dimentichiamo che questi sono i materiali di una vasta ricerca scientifica condotta dall'Istituto Carlo Cattaneo di Bologna. SI direbbe un gioco del destino il fatto che le due più famose battaglie combattute dall'esercito italiano nella Grande Guerra siano incominciate un anno esatto una dall'altra: il 24 ottobre 1917 quella di Caporetto, il 24 ottobre 1918 quella di Vittorio Veneto. Questa si concluse il 4 novembre e si può dire che anticipò la fine del conflitto mondiale perché, eliminando l'impero austro-ungarico, fece vacillare la resistenza tedesca. La battaglia di Vittorio Veneto ha avuto una strana sorte. Esaltata, mitizzata in Italia, soprattutto nel Ventennio fascista: sminuita o falsificata nel suo spirito e nel suo sviluppo dai nostri alleati, subito dopo la guerra, forse per limitare il peso politico italiano al tavolo della pace. Per descrivere la battaglia di Vittorio Veneto Cervone ha abbondantemente utilizzato la relazione dell'Ufficio storico dell'Esercito, completata solo nel 1988. Ma per raccontare Vittorio Veneto bisogna prima ricor- dare la disfatta di Caporetto, la resistenza sul Piave, sul Grappa, sull'Altipiano dei Sette Comuni, la battaglia del Solstizio, le pressioni degli alleati, la lunga ed estenuante vigilia dell'assalto finale. Bene, tutto questo è esposto in modo giornalistico, separando i fatti dalle opinioni, spiegandoli. Opportunamente l'autore utilizza lettere e diari italiani, anche austriaci e tedeschi, e sono forti testimonianze contro la guerra. In un diario tedesco c'è una pagina terrificante datata Caporetto. Qui, nella vicina conca di Plezzo, la prima linea italia¬ Ci sono tuttavia degli elementi che possono servire per tracciare una storia collettiva della lotta armata? Un'esperienza comune è l'assenza del padre (o l'invadenza della madre). Baglioni: «Non c'era mai perché aveva un impegno politico e sindacale». Anche Savasta ricorda «l'assenza del padre per il lavoro: essendo un agente di polizia non c'era mai». Buonavita: «Mia madre aveva questo ruolo, nel senso che il capofamiglia era lei». La madre di Piero è «la classica madre romana...» con un «attaccamento morboso ai figli». Anche per gli altri, la madre appare come il punto di riferimento forte, che durante la clandestinità e quindi il carcere rappresenta il labile ma infrangibile legame con la vita che sta fuori. Un'altra esperienza condivisa è la solidarietà con i deboli, i subalterni, i ribelli, nutrita da vicende personali, in particolare il lavoro in fabbrica, ma ispirata anche da personaggi della Resistenza e dall'ammirazione per Lenin. Tutti passano in un modo o nell'altro attraverso la militanza nella sinistra extraparlamentare: Lotta Continua, Potere operaio, Senza Tregua, Autonomia operaia. Tuttavia furono migliaia i giovani che fra la fine degli Anni Sessanta e la fine degli Anni Settanta fecero sostanzialmente le medesi¬ I SPIOVE fosse il marcio e 11 quanto' fosse profondo, 11 ai tempi della lotta ar11 mata, i dirigenti del pei I " Ilo sapevano. «Ma la democrazia era un'altra cosa. Questo è il punto. Lo slogan "Né con le Br, né con lo Stato", che allora era di moda in certi ambienti, era una colossale sciocchezza. Bisognava essere contro le Brigate Rosse per stare dalla parte della democrazia». Così si legge in Misteri e verità, bella biografia di Ugo Pecchioli, scritta con la collaborazione di Gianni Cipriani, giornalista dell'Unità. All'epoca del terrorismo, Pecchioli era «il ministro ombra dell'Interno», l'interprete della fermezza berlingueriana. Scrivevano sui muri anche il suo nome con la K: «Kossiga = Pekkioli». Suo commento, a do¬ me esperienze. Perché alcuni di essi, come questi otto, tagliarono i ponti buttandosi al di là della barricata? Perché la lotta armata appariva ai loro occhi, come dice Savasta, «l'unica realtà praticabile». Non è un caso che il salto coincida con la fine della militanza extraparlamentare, per atrofia, per esaurimento, per mancanza di sbocchi: è la morte della politica a generare il terrorismo. Questo rapporto di causa effetto viene a galla con lacerante nettezza ed è inevitabile domandarsi quali siano state le responsabilità dei gruppi dirigenti sia dei partiti di sinistra sia di Le e Potop. Ma dietro il disperato bisogno di ridisegnare una propria identità che anima i racconti in modo emozionante rimane spa- / sociologi Catanzaro e Manconi hanno raccolto in carcere le «confessioni» di otto militanti di quella Sinistra die teorizzò la politica della violenza ventoso il sostanziale cinismo con cui giovani cresciuti nell'humus culturale della sinistra superano i problemi morali posti dalla lotta armata. Per tutti loro, il passaggio alla violenza dal pestaggio alle molotov, dal sequestro all'assassinio - è spiegato sempre come una autodifesa. Come dice uno di loro, «se era giusta la violenza in Vietnam, se era giusta la lotta di Che Guevara» allora era anche giusto «lì in Italia, contro la strage di Stato, mettere in piazza la violenza». Alberto Papuzzi R. Catanzaro e L. Manconi Storie di lotta armata il Mulino pp. 478, L. 50.000