L'Etiopia attacca ancora l'ltalietta

il caso. La nostra disfatta sarà simbolo della lotta anticolonialista il caso. La nostra disfatta sarà simbolo della lotta anticolonialista L'Etiopia attacca ancora Tltalietta Adua, centenario della rivincita africana ~7T] RESTE Baratieri, generale I ! delle milizie italiche noto al I I mondo per le sue fortunate 1 I imprese guerresche nelle V/ I campagne d'Africa e più per il subito rovescio di fortuna che legò il suo nome a quello per l'Italia infelicissimo di Adua». Povero generale Baratieri. L'epigrafe apposta sulla sua tomba quando nel 1901 la morte fece tacere in un silenzioso oblio anche le ultime polemiche su quella vergognosa disfatta, sembrava fatta apposta per aggirare con gli arzigogoli della retorica il peso di un imbarazzante ricordo. E invece cento anni dopo c'è qualcuno che vuole a tutti i costi tirarlo fuori da quel silenzio e trasformarlo, addirittura, in un simbolo permanente di sconfitta e di disonore. Ancora una volta scendono in campo i suoi nemici di allora, quegli etiopici che alle cinque e trenta di un afoso mattino del primo marzo 1896 si presentarono innumerevoli come formiche, tra le forre e i dirupi di Abba Garima, all'appuntamento con la Storia. Il governo etiopico ha lanciato un appello a tutti i Paesi africani per trasformare, il prossimo anno, l'anniversario di Adua, la più grande battaglia coloniale del secolo scorso, in una «festa della liberazione e dell'indipendenza di tutto il continente». Astuto regista dell'operazione il ministro degli Esteri etiopico Tarnrat Layne. Il suo Paese è lacerato da violenti odi etnici. Cosa c'è di meglio che rispolverare le datate glorie delle guprre di Menelik per cementare un po' di consenso? Una scorciatoia che va bene anche per il resto dell'Africa, assediata dal disastro e alla ricerca di nuovi miti con cui sostituire quelli ormai improponibili della indipendenza e dello sviluppo. Cento anni fa la notizia della sconfitta italiana provocò un brivido nell'Africa di allora, che immagazzinava odio mentre si completava il tumultuoso arraffa arraffa colonialista per spartirsi gli ultimi spazi bianchi sulle carte geografiche: per la prima volta un esercito del serpente bianco, con i suoi fucili i suoi cannoni le sue tattiche micidiali, veniva annientato dai «barbari», dai «negri». Anche Alberto Woctt, forlivese con nonno svizzero, capitano del terzo battaglione fanteria Africa prima di quel triste mattino di marzo, era arciconvinto che mai un esercito europeo avrebbe perduto contro gli indigeni, come scrisse nelle sue memorie. Per questo, come tanti altri suoi compagni che sdegnavano il tran tran di caserma in una Italietta ben contenta di vivacchiare, si era imbarcato per Massaua. Cercava medaglie a buon mercato. Che qualcosa non funzionasse aveva cominciato a intuirlo a Ravenna dove invece del modernissimo fucile modello '91 distribuirono reperti archeologici delle guerre di indipendenza. Povero capitano! Non aveva ancora capito che anche quella coloniale era una tipica pagina di storia all'italiana. Eravamo andati in Africa cercando un posto dove trasferire una colonia penale, ci eravamo quasi per caso ritrovati con quella polverosa fetta di rocce e di deserto che era Massaua. Sennonché ai vecchi notabili che pre- dicavano la politica del «raccoglimento», del piede di casa, stare cioè ben chiusi nella piccola colonia senza tentare pericolose avventure si era sostituito a Roma un vecchio garibaldino, un giacobino folgorato dalle sirene monarchiche e imperialiste. Anche a lui in fondo dell'Africa non importava niente, ma qualche vittoria in Etiopia era un modo per tacitare una opposizione di sinistra fastidiosa e con l'antipatica abitudine di ricorrere alla piazza. Politica estera come mezzuccio di politica interna, un classico della nostra storia nazionale. Sfortuna volle che Crispi incontrasse un altro garibaldino, il generale Baratieri, tipico ufficiale italiano più abile nelle manovre nei ministeri che sul campo di battaglia. Al capitano Woctt erano bastate un paio di marce sotto il sole spietato dell'altipiano, con le rocce che sfasciavano le scarpe dei soldati, per accorgersi che «la nostra vanità europea, suscitata da facili vittorie, che ci aveva persuasi bastasse apparire per vincere o debellare, che un bianco valesse cento neri e che una salva di plotone mettesse in fuga un esercito era solo errore, vanità, mistificazione». Anche Baratieri doveva averlo capito, ma da Roma i telegrammi di Crispi che voleva una vittoria a tutti i costi arrivavano come sciabolate: «Questa è una tisi militare, non una guerra... Il governo ti ha mandato quanto hai chiesto in uomimi e in armi. Il Paese aspetta una vittoria e io l'aspetto autentica. Bada a quello che fai». Meglio affrontare la cavalleria di Menelik che la rabbia dell'ex garibaldino. Allora tutti in marcia, mal equipaggiati, sfiniti dalla sete, con carte completamente sbagliate, verso l'appuntamento con il disastro. Duecentosessantadue ufficiali e tremila trecento soldati uccisi, millenovecento prigionieri, un disastro. Con la folla che a Milano e a Pavia dà l'assalto alle caserme, alle stazioni per bloccare la partenza di nuove truppe, e a Roma assedia Montecitorio costringendo Crispi alla resa e alle dimissioni. Hanno ragione gli etiopici: c'è abbastanza da festeggiare, per loro. Ma c'è un ma. Come ricorderanno i mille ascari che combatterono con coraggio e determinazione a fianco degli italiani? E soprattutto i quattrocentosei che tornarono dalla prigionia con la mano destra e il piede sinistro amputati per punirli della loro «lealtà»? Domenico Onirico Sopra a sinistra, il generale Baratieri. A destra Menelik. Qui accanto la battaglia di Adua

Persone citate: Abba, Alberto Woctt, Crispi, Domenico Onirico