Hiroshima, il perdono dei lebbrosi di Vittorio Zucconi

Hiroshima, il perdono dei lebbrosi Con una superstite nei luoghi dell'olocausto atomico: «Qui c'erano solo mucchi di corpi» Hiroshima, il perdono dei lebbrosi Cinquantanni di silenzio senza rancori VIAGGIO NELLA MEMORIA HIROSHIMA DAL NOSTRO INVIATO Era trascorsa appena un'ora e mezzo dallo scoppio, quando un cane trotterellò Fino alla cuccia di fortuna dove Hiroko si ora rannicchiata, le leccò adagio una piaga sul braccio e cadde di schianto, morto. Il vento si era un poco calmato; la pioggia nera caduta dal cielo surriscaldato aveva finito di scendere; i ricognitori americani orbitavano attorno al fungo per documentare gli effetti. E la gente continuava a non capire. «Vedevo uomini e donne in apparenza incolumi, camminare, barcollare e crollare a terra morti, come quel cane», racconta la mia guida all'inferno di Hiroshima, la signora Hiroko Nakamoto. Chi era sopravvissuto al resto, cominciava a morire ucciso da un nemico che nessun essere umano aveva mai incontralo prima, la radioattività artificiale. I neutroni, le particelle, i raggi gamma scatenati da «Little Boy» erano penetrati nei loro corpi, avevano attaccato i nuclei delle cellule e li disintegravano in silenzio, senza dolore, cellula dopo cellula, fino al collasso. Prima che il sole tramontasse sul primo giorno della Età della Bomba, sarebbero cadute così altre 25 mila persone dopo le 75 mila spazzate via dalla prima ondata. «Non so perché, ma io avevo assorbito pochissime radiazioni. Il vento doveva avermi spinto dietro un muro di cemento». Mentre i ricognitori dell'aviazione scattavano le foto del fungo, la signora usciva carponi dalla grotta di rottami dove l'avevamo lasciata esausta. Finita la pioggia, la processione dei morti gridava «fuoco, fuoco», indicando la muraglia di fiamme che avanzava dal centro. La ragazzina si alzò, incerta sulle ginocchia, come i puledri neonati, e si unì al corteo dei lebbrosi che camminava lentamente nella polvere, una polvere talmente fitta che gli aerei dovettero incrociare per tre ore pri ma di riuscire a vedere chiaramonte le rovine dall'alto. Ma con quei passi esitanti, Hiroko aveva cominciato, senza neppure osare sperarlo, il cammino della resurrezione sua, della sua città, del suo Giappone. «Più o meno da queste parti - mi dice indicando un grande magazzino di lusso che vende tutto il fall out del consumismo internazionale caduto dove 50 anni or sono la gente stramazzava fulminala dai neutroni - una vecchia mi vide e ini fece segno di entrare nella sua catapecchia, ancora quasi intatta. Perché io e non altri? Non lo so. Senza dirmi una parola, mi sbucciò di dosso i brandelli dei vestiti, mi fece indossare un abito rincalzandomi dentro le maniche i lembi di pelle che mi pendevano dalle braccia e mi guidò attraverso mucchi di macerie verso una baracchetta di fortuna. Li dentro, un uomo in camice bianco faceva iniezioni. Non ho mai saputo chi fosse, né che cosa mi iniettò, ma so che quella puntura mi restituì forza e dunque mi salvò la vita». Con l'energia di quella misteriosa puntura, la ragazzina si avviò di lena verso le colline in periferia, superando il corteo nella marcia dentro i gironi infernali. Dal primo girone, in cui lei era stata colpi- «Il problenon la Borabbia nepgoverno ca tutti. A c ta, dove l'85% degli esseri umani erano stati uccisi nei primi due minuti, passò al secondo, oltre i due chilometri dall'«ipocentro», cioè dallo scoppio, dove erano caduti subito «soltanto» il 50% degli abitanti, poi al terzo, a 5 chilometri, dove due terzi della gente era ancora viva, soltanto lambita dalle radiazioni. «Riconobbi l'ambulatorio di un modico amico di famiglia. Vagava tra mucchi di corpi arrivati dal centro e scaricati lì. Aveva sul naso un paio di occhiali rotti, in mano una bottiglia di tintura di iodio e uno straccetto con il quale umettava le ustioni delle vittime, che tentavano di alzare la testa e inchinarsi per ringraziarlo prima di morire. Scavalcava cataste di corpi troppo ustionati per essere riconoscibili ma ancora vivi. A volte, sembra ridicolo dirlo ma è così, era impossibile dire quale era il davanti e quale il di dietro di quei moribondi. Anni dopo, mi raccontarono che tra i corpi c'era anche quello di sua figlia, una ragazza della mia età, ma era talmente bruciata'che lui non la riconobbe e non la potè bagnare con la tintura. Non sarebbe servito a niente, ma lui non se lo perdonò mai. Si uccise nel 1950 o nel 1951, non ricordo». Dalle parti della casa di suo padre, Hiroko riconobbe » un'altra conoscenza di fa- miglia, un ispettore di polizia che ogni tanto veniva a prendere il tè con il padre, uomo di rispetto a Hiroshima. «Si era messo l'uniformo da parata con kepi e pennacchio in testa e si era arrampicato su un mucchio di detriti dal quale dirigeva il traffico stradale, che naturalmente non c'era più. Doveva avergli dato di volta il cervello». La ragazzina lo avvicinò per chiedere notizie del padre, della sorella, della matrigna, la donna che il padre aveva sposato in seconde nozze. «Non vedi che sto regolando il traffico», le rispose brusco il poliziotto, ma poi ebbe un barlume di lucidità. «La tua casa non c'è più, Hiroko, ho incontrato i tuoi sulla strada verso la casa di tua zia in collina. Tuo padre mi ha detto che avrebbe mandato qualcuno, un domestico, a cercarti». Il famiglio era scoso effettivamente dal colle per cercare Hiroko, ma non l'aveva trovata Trovò invece, come migliaia e migliaia di persone accorse verso la città, le radiazioni che l'avrebbero ucciso in pochi mesi. Come poteva immaginare? Ancora nell'autunno-inverno del '45-46, quattro mesi dopo la Bomba, i soldati americani sbarcati dopo la resa del Giappone assorbirono dosi altissime di radiazioni e molti si ammalarono. Per due anni, l'acqua di falda superficiale restò pericolosa da bere. Hiroko prese anche lei la via della collina, ma l'effetto della iniezione miracolosa cominciava a sfumare. «Crollai davanti a una casetta di campa-' gna, non so quale, da que ste parti» mi dice mentre il suo autista guida a velocità rispettosa sui fianchi di un'altura dalla / quale vedo il delta e la baia di Hiroshima sotto di noi attraversati da grandi viali e ponti di cemento nuovissimi. Il ponte a «T» ricostruito, quello scelto come bersaglio dal bombardiere dell'Enola Gay per mirare, si distingue benissimo. «Una contadina mi prese in braccio, poi non ricordo quasi più niente, solo la febbre e le mosche che ronzavano attorno alle mie piaghe». Rimase ospite di una perfetta sconosciuta per molti giorni, prima che un altro servo la trovasse. «Non era rimasto più un bicchiere o una ciotola intatta. La vecchia mi versava da bere in bocca con una foglia piegata in due, per bagnarmi le labbra e la punta della lingua, ora come leccare la rugiada. Da mangiare non c'era quasi niente. Dalla città, arrivavano venditori ambulanti di schifose polpette vegetali, fatte macinando il riso con l'erba selvatica cresciuta dappertutto sulle rovine radioattive. Una sera, la vecchia mi portò una bacinella colma di un pastone fatto con acqua e glutine di riso, per curare le mie piaghe. Mi spalmò delicatamente quella pasta addosso, come un intonaco sul muro» Fu un prevedibile disastro. «La pappa si seccò formando una crosta purulenta che un medico dovette staccarmi un pezzetto alla volta, con lo pinzette, mentre io urlavo e cercavo di dargli i pugni sulla schiena. La puzza del mio corpo si mischiava a quella che saliva dalla città, dove i soldati bruciavano pile di corpi, fino a che non mancò la benzina». Finalmente fu trasportata alla casa della zia. Il padre era vivo. Sopravvivrà ancora 16 anni. La moglie, la matrigna di Hiroko, era invece morta subito. Anche la zia morì, ma in ottobre, dopo aver vomitato di nascosto dallo ragazze, per giorni e giorni. Morì proprio quando Hiroko cominciava a star meglio, le cicatrici ormai quasi rimarginate, più fortunata di altri che dovevano subire la tortura di piaghe che si rimarginavano un giorno e si riaprivano il giorno dopo, nell'altalena dei globuli bianchi impazziti sotto l'effetto delle radiazioni. «Capii di avercela fatta quando vidi arrivare a casa, ora novembre, due enormi soldati americani che erano venuti a parlare con mio padre. Mia sorella e io, le uniche donno di casa vive, provammo una vergogna e un imbarazzo terribili perché non avevamo niente altro da offrire che una tazzina di O cha di tè verde aspro. Quando un giapponese si sente in imbarazzo sorride la signora - vuol diro che ormai sta bone». La storia di Hiroko finisco qui. Non mi dirà più nulla, non sulla sua macchina, non davanti ai bocconcini del delizioso sushi di pesce crudo che mi volle offrire non sul treno che ci riporta a Tokyo e sarebbe stato inutile, peggio, maleducato, domandare altro. Non saprò mai, anche se lo sospetto, perché una signora giapponese graziosa e di buona famiglia come lei non si sia sposata, perché non abbia avuto figli, perché abbia scelto l'America per andare a studiare e vivere dopo la guerra, proprio quell'America che le aveva lasciato sulla pelle il marchio della vendetta di Pearl Harbor. «Il problema è la guerra, non la bomba», mi dirà soltanto la «ragazzina di Hiroshima» sul trono ultraveloce che a 240 all'ora spacca il panorama della costa giapponese fra risaie <i fabbriche. morazioni ppone una menticare lla che ora a a parlare «Non provo rancori ne rabbia, neppure pei il nostro governo, che pure aveva mentito a tutti, anche all'Imperatore. Non c'era un abitante di Hiroshima che non fosso convinto che il Giappone stesse vincendo la guerra, un so concio prima delle 8 e 15 di lunedi sei agosto. A che serve il ranco re?». A poco, cortamente. Eppure proprio questo silenzio stoico durato mezzo secolo, questo non gridare e non digrignare i denti e non maledire, così disperatamente giapponese, è forse il magone più buio che ti riporti dentro da Hiroshima. E' stoicismo o arroganza? E' umiliazione immensa, questa chi; ha cucito la bocca per anni a tanti Hibakusha, i sopravvissuti, al governo, ai politici? 0 è la osti nazione pericolosa di un popolo che non ha ancora la maturità per ammettere che furono l'Impero del Tonno e l'Imperialismo straccione «da terzo mondo cresciuto troppo in fretta», come dice Ken zaburo Oo, il premio Nobel giapponese per la letteratura 1994, a scatenare quel mozzo secolo di guerre in Asia finiti! nel lampo di Hiroko? Spero di sbagliarmi, ma nel Giappone 1995, come nel resto del mondo, sento una gran voglia di dimenticare, di non voltarsi più indietro, per non vedere il lampo del passato e forse e questa la molla che ha spinto i superstiti a parlare. Hiroshima che noia. Cambia canale, tesoro. Tra poche settimane, in questa ostato di 50 anni dopo, sotto la cu pola scheletrita cominceranno le coreografie ufficiali della commemorazione. Parleranno i sindaci di Hiroshima e di Nagasaki, la socon da città colpita dagli americani, scelleratamente, senza più alcuna possibile giustificazione militare, tre giorni dopo Hiroshima. Il governo di turno a Tokyo, pronuncerà l'ennesima, vaga ammissione di mezze colpo e si butterà tutto sugli auspici di pace. Voleranno le colombe. Arriveranno i messaggi del Papa. I sopravvissuti deporranno migliaia di origami di carta a fonna di cicogna, davanti al monumento a Sadako, la bambina morta di leucemia da radiazione, e lanceranno migliaia di lumini accesi corno anime sull'acqua del fiume Hon Kawa chi- passa sotto il ponte a «T». Vorrà anche Bill Clinton, in settembre, per parlare di pace c di automobili americano. Sarà un'orgia di «mai più», di lacrimo, di raccapricci, di buono intenzioni. Ma intanto a oriento del Giappone, sugli atolli francesi che stanno al confino dell'oceano, e a occidente, nella Cina che non vuol sentire ragioni, altro bombo scoppieranno per sperimentare quel che Hiroshima e Nagasaki hanno già sperimentato per conto di tutti noi, bombe all'idrogeno, davanti alle quale il «ragazzino» all'uranio che annientò Hiroshima era un petardo. Se mai una bomba di queste dovesse cadere su una nuova Hiroshima, se questo del 1995 fosse non uno sguardo al passato ma un ritorno al futuro, non ci sarebbe mai più un altro cinquantenario da commemorare. Non ci sarebbe nessuna ragazzina superstite, per raccontare. Vittorio Zucconi (3-Fine) «Il problema è la guerra non la Bomba. Non provo rabbia neppure contro il governo che aveva mentito a tutti. A che servirebbe?» Al di là delle commemorazioni c'è nel nuovo Giappone una grande voglia di dimenticare Forse è questa la molla che ora spinge chi c'era a parlare «Un agente impazzito dirigeva in uniforme un traffico inesistente La tua casa on c'è più mi disse» Pia so che vende tutto il fall out del consumismo internazionale caduto dove 50 anni or sono la gente stramazzava fulminala dai neutroni - una vecchia mi vide e ini fece segno di entrare nella sua catapecchia, ancora quasi intatta. Perché io e non altri? Non lo so. Senza dirmi una parola, mi sbucciò di dosso i brandelli dei vestiti, mi fece indossare un abito rincalzandomi dentro le maniche i lembi di pelle che mi pendevano dalle braccia e mi guidò attraverso mucchi di macerie verso una baracchetta di fortuna. Li dentro, un uomo in camice bianco faceva iniezioni. Non ho mai saputo chi fosse, né che cosa mi iniettò, ma so che quella puntura mi restituì forza e dunque mi salvò la vita». Con l'energia di quella misteriosa puntura, la ragazzina si avviò di lena verso le colline in periferia, superando il corteo nella marcia dentro i gironi infernali. Dal primo girone, in cui lei era stata colpi- ga tutti. A che servirebbe?» centro e scaricati lì. Aveva sul naso un paio di occhiali rotti, in mano una bottiglia di tintura di iodio e uno straccetto con il quale umettava le ustioni delle vittime, che tentavano di alzare la testa e inchinarsi per ringraziarlo prima di morire. Scavalcava cataste di corpi troppo ustionati per essere riconoscibili ma ancora vivi. A volte, sembra ridicolo dirlo ma è così, era impossibile dire quale era il davanti e quale il di dietro di quei moribondi. Anni dopo, mi raccontarono che tra i corpi c'era anche quello di sua figlia, una ragazza della mia età, ma era talmente bruciata'che lui non la riconobbe e non la potè bagnare con la tintura. Non sarebbe servito a niente, ma lui non se lo perdonò mai. Si uccise nel 1950 o nel 1951, non ricordo». Dalle parti della casa di suo padre, Hiroko riconobbe » un'altra conoscenza di fa- avrebbe mandato qualcuno, un domestico, a cercarti». Il famiglio era scoso effettivamente dal colle per cercare Hiroko, ma non l'aveva trovata Trovò invece, come migliaia e migliaia di persone accorse verso la città, le radiazioni che l'avrebbero ucciso in pochi mesi. Come poteva immaginare? Ancora nell'autunno-inverno del '45-46, quattro mesi dopo la Bomba, i soldati americani sbarcati dopo la resa del Giappone assorbirono dosi altissime di radiazioni e molti si ammalarono. Per due anni, l'acqua di falda superficiale restò pericolosa da bere. Hiroko prese anche lei la via della collina, ma l'effetto della iniezione miracolosa cominciava a sfumare. «Crollai davanti a una casetta di campa-' gna, non so quale, da que ste parti» mi dice mentre il suo autista guida a velocità rispettosa sui fianchi di un'altura dalla / quale vedo il delta e la baia di Hiroshima sotto di noi di Hiroshima dopo il bombardamento 'li volta, con lo pinzette, mentre io urlavo e cercavo di dargli i pugni sulla schiena. La puzza del mio corpo si mischiava a quella che saliva dalla città, dove i soldati bruciavano pile di corpi, fino a che non mancò la benzina». Finalmente fu trasportata alla casa della zia. Il padre era vivo. Sopravvivrà ancora 16 anni. La moglie, la matrigna di Hiroko, era invece morta subito. Anche la zia morì, ma in ottobre, dopo aver vomitato di nascosto dallo ragazze, per giorni e giorni. Morì proprio quando Hiroko cominciava a star meglio, le cicatrici ormai quasi rimarginate, più fortunata di altri che dovevano subire la tortura di piaghe che si rimarginavano un giorno e si riaprivano il giorno dopo, nell'altalena dei globuli bianchi impazziti sotto l'effetto delle radiazioni. «Capii di avercela fatta quando vidi arrivare qspinge chi c'era a parlare Non mi dirà più nulla, non sulla sua macchina, non davanti ai bocconcini del delizioso sushi di pesce crudo che mi volle offrire non sul treno che ci riporta a Tokyo e sarebbe stato inutile, peggio, maleducato, domandare altro. Non saprò mai, anche se lo sospetto, perché una signora giapponese graziosa e di buona famiglia come lei non si sia sposata, perché non abbia avuto figli, perché abbia scelto l'America per andare a studiare e vivere dopo la guerra, proprio quell'America che le aveva lasciato sulla pelle il marchio della vendetta di Pearl Harbor. «Il problema è la guerra, non la bomba», mi dirà soltanto la «ragazzina di Hiroshima» sul trono ultraveloce che a 240 all'ora spacca il panorama della costa giapponese fra risaie <i fabbriche. c di automobili americano. Sarà un'orgia di «mai più», di lacrimo, di raccapricci, di buono intenzioni. Ma intanto a oriento del Giappone, sugli atolli francesi che stanno al confino dell'oceano, e a occidente, nella Cina che non vuol sentire ragioni, altro bombo scoppieranno per sperimentare quel che Hiroshima e Nagasaki hanno già sperimentato per conto di tutti noi, bombe all'idrogeno, davanti alle quale il «ragazzino» all'uranio che annientò Hiroshima era un petardo. Se mai una bomba di queste dovesse cadere su una nuova Hiroshima, se questo del 1995 fosse non uno sguardo al passato ma un ritorno al futuro, non ci sarebbe mai più un altro cinquantenario da commemorare. Non ci sarebbe nessuna ragazzina superstite, per raccontare. Vittorio Zucconi (3-Fine) ' 4\ X / - \ Una veduta di Hiroshima dopo il bombardamento A sinistra, e qui accanto, immagini di sopravvissuti all'atomica di Hiroshima Al centro, il memoriale con i nomi delle vittime

Persone citate: Bill Clinton, Fino, Hiroko Nakamoto, Sadako, Trovò, Vittorio Zucconi