Germania, voglia di élite di Emanuele Novazio

Germania, voglia di élite CASO. Grande ritorno di un concetto rimasto a lungo tabù Germania, voglia di élite A caccia di leader per la svolta del2000 BONN DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Helmut Kohl ne è certo: «L'economia sociale di mercato ha bisogno di gente disposta ad aver fiducia in se stessa e ad assumersi dei rischi: ha bisogno di un'elite». Il «futuro della nazione», gli fa eco il vice Cancelliere e ministro degli Esteri Klaus Kinkel, «dipende dall'impegno delle élite»: in caso contrario il rischio è «la decadenza» del Paese. Secondo l'ideologo socialdemocratico Peter Glotz, la società tedesca «non può fare a meno di distinguere fra gli eccellenti, i mediocri e i peggiori»: la promozione dei «talenti eccellenti», anzi, «deve essere un fine e va perseguita in modo sistematico». E' forse l'ultimo tabù a cadere, in una Germania di nuovo confidente nel suo ruolo: torna ad affacciarsi a forza, nel linguaggio della cultura e della politica, dell'economia e della scienza, un concetto molesto e tormentato, associato spesso a torto o con ragione - alle memorie più oscure e reazionarie del passato. «Elite» non solleva più le diffidenze che ne accompagnarono il declino nel secondo dopoguerra. Non provoca più le associazioni autoritarie che la travolsero col '68. E' cominciata forse quella che lo Spiegai chiama «la battaglia per il meglio», e che simposi e convegni non si stancano di raccomandare, alla Germania affacciata su un futuro che la renda finalmente franca e disinvolta, con se stessa e il suo passato. «Perché stupirsene?», ci si chiede ormai dovunque - nell'industria in cerca di nuovi «capitani» e nei partiti in crisi di adesioni, nelle università e nelle Chiese prive di carisma - «in strutture tanto complicate come quelle d'oggi serve una classe intellettuale di vertice altamente qualificata. Serve un'elite». Anche perché il presente è fosco, o almeno tale appare ai più. La Germania dell'unificazione manca di gruppi-guida capaci di trainarla alla svolta del Duemila, la Germania unita è affidata a «élite senza progetto» e manca di «talenti visionari», lamenta un manifesto firmato - fra gli altri - da Glotz e dal presidente del Bundestag Rita Suessmuth. La Germania che vanta la supremazia economica in Europa, e che riscopre l'orgoglio di potenza fra le potenze politiche mondiali, si affida a manager incapaci di innovazioni e addirittura «provinciali», denuncia un'inchiesta del mensile economico Capital. Forse perché «élite» è parola troppo difficile da pronunciare, in una società ancora sospesa sulla storia? Forse perché troppe restano le contraddizioni, nel Paese che non riesce a emanciparsi dalle immagini più fosche del passato? Secondo il sociologo Ralf Dahrendorf - tedesco per na- scita, ma inglese per carriera accademica e per fama - qualcosa si è inceppato, dopo la tragedia di quegli anni: «Con la seconda guerra mondiale, in Germania la struttura monopolistica di élite è crollata» nota sullo Spiegel - e in quel che resta, tra i frantumi dell'«élite controvoglia», manca la consapevolezza di sé. Manca, perfino, la «necessaria forza creativa». 11 lamento non risparmia naturalmente la cul¬ tura ufficiale, che si sente esclusa dal colloquio col potere, e che imputa alla «sordità dei governanti» la crisi delle élite. «La nostra è una società antielitaria», accusa un direttore d'orchestra famoso, Christoph von Dohnànyi: «Accetta le élite soltanto dove sono popolari, nello sport o nello showbusiness». All'ultima conferenza annuale degli scrittori tedeschi un autorevole membro del Pen Club, Erich Schloess, ha polemicamente esaltato «gli anni in cui gli scrittori e la politica si stimavano e si consultavano su quel che bisognava fare nel Paese». Ha ricordato, a governo e opposizione, quanto profondamente è cambiato il panorama, rispetto a «quando Willy Brandt ed Egon Bahr discutevano con Gùnter Grass e con Heinrich Boll». Ha ricordato, a Kohl e a Scharping ma in generale a chi è alla guida del Paese, «una famosa seduta notturna del cancelliere Schmidt, insieme con Boll e con Frisch»; era «l'estate del terrorismo, e Helmut Schmidt si interrogava e interrogava gli ospiti sulle radici di quel male. Ogni tanto doveva uscire dalla stanza per prendere una decisione, perché era la notte di Mogadiscio, ma poi rientrava, e continuava». Gli intellettuali tedeschi non frequentano più la Cancelleria, e a parte Stefan Heym (deputato post-comunista, entrato in Parlamento alle ultime elezioni), neppure il Bundestag. Per l'insofferenza del potere, per diffidenza nei suoi confronti. La stessa - accusano politologi e sociologi - che rende impossibile in Germania quel che accade invece negli Stati Uniti: la «permeabilità della politica», la sua disponibilità a un travaso di energie dall'economia, dalla cultura, dalla scienza. La crisi delle élite è anche frutto di una lontananza alimentata da pregiudizi, da inquietudini, da timori ingiustificati? Un'indagine recente mostra che moltissimi studenti non si immaginano di diventare élite, non si considerano élite sia pure del futuro, e nemmeno si riconoscono nell'elite come categoria. E molti uomini dell'amministrazione alimentano perplessità e dubbi in nome della democrazia ritrovata: «In Germania non abbiamo bisogno di nessuna Ena, quel sistema è fatto su misura per lo strato di vertice parigino», sostiene un alto funzionario del ministero dell'Economia di Bonn. «Quel sistema finisce per tagliar fuori vasti strati popolari. La Germania Federale ha invece uno scopo soprattutto: scegliere dal bene il meglio». Emanuele Novazio Dalla politica alla cultura, dall'economia alle scienze: è «la battaglia per il meglio» mi Un'immagine del Reichstag di Berlino. A sinistra il Cancelliere Helmut Kohl Qui a fianco il sociologo Ralf Dahrendorf, tedesco di nascita. Sopra lo scrittore Giinter Grass