A Hiroshima dove accadde il futuro

A Hiroshima, dove accadde il futuro Il vento dell'atomica francese riapre le ferite del Giappone A Hiroshima, dove accadde il futuro Cinquantanni fa nasceva il terrore nucleare VIAGGIO NELLA MEMORIA GHIROSHIMA RANDI ideogrammi neri, stampati sulle prime pagine di tutti i giornali giapponesi sopra foto d'archivio del «l'ungo», cercano di gridarmi qualcosa con il punto esclamativo dalle edicole della stazione di Hiroshima, appena sbarco dal primo rapido del mattino proveniente da Tokyo, ma che cosa? Bomba atomica? A Hiroshima? In prima pagina col punto esclamativo? Oddio che giorno è oggi? 14 giugno del 1995, mezzo secolo dopo. Calma. Frugo nervosamente tra i pacchi dei giornali per trovarne uno scritto in qualche lingua comprensibile, ecco, il «Japan Times». Titolo: «Torna la Bomba nel Pacifico. La Francia riprenderà gli esperimenti nucleari». Benvenuto a Hiroshima. Sognavo di essere venuto a raccontare un anniversario del passato. Mi sono svegliato in un possibile anniversario del futuro. E' soltanto una coincidenza, certamente, semplice sfortuna di viaggiatore, arrivare in questa città proprio nel giorno in cui si rialza il vento della Bomba. Come è sicuramente immaginazione sentire sulla schiena ancora il brivido di una radioattività che non esiste più da anni, se non nelle pietre del sottosuolo, quando i cantieri edili le rivoltano e i contatori Geiger tornano a crepitare. L'aria è limpida, chiara, tiepida. Le acque dei sette fiumi che tagliano la città sonc più pulito di altri corsi d'acqua urbani giapponesi. Eppure è molto, molto diverso leggere di esperimenti atomici a Parigi, o Roma o Washington, e leggerne qui, a Hiroshima, guardando dentro il pozzo senza fondo della morte nucleare. Non c'è nulla di astratto nó di teorico nelle grandi strade che si spalancano davanti al piazzale della stazione e sono le più larghe di tutte le città giapponesi, perché aperte con comodità dai bulldozer americani fra le rovine radioattive. Non ci sono ragionamenti, razionalizzazioni che aiutino, quando il tassi ti scarica sopra un bizzarro ponte a forma di T sul fiume Hon, costruito cosi perché deve collegare fra loro due sponde di fiume e un'isola, e le gambe tremano un poco, soltanto un poco, nel ricordare come proprio questo ponte fu il riferimento visivo cercato dal puntatore dell'«Enola Gay», alle ore 8 e 15, del 6 agosto 1945. «...Comandante ce l'ho, ho il ponte nel collimatore...». «...Okay, bombardiere, go, go, sgancia...». Il nostro mondo è costellato di infiniti vulcani spenti della storia: le doline del Carso, i campi della morte in Cambogia, le colline del massacro di Gettysburg, i forni di Auschwitz. Ma Hiroshima è sempre stala qualche cosa di infinitamente più terribile. Il ponte a forma di T, lo scheletro famoso della cupola scarnificala che gli sorge accanto, non sono soltanto un cimitero di uomini, ma il cimitero dell'Uomo, la prima finestra aperta sulla fine del mondo. «Io sono colui che distrugge i mondi» aveva mormorato sconvolto, appena tre settimane prima del bombardamento, Robert Oppenheimer assistendo al test nel deserto del New Mexico. E se le 50 mila bombe termonucleari prodotte da allora sono un numero insensato ovunque lo si legga, se nuovi test nucleari sono una paz- zia, soltanto qui, a Hiroshima 50 anni dopo, i numeri diventano ripugnanti come le cicatrici che vedo sulle gambe delle donne che spazzano in silenzio, sotto le grandi visiere di paglia intrecciata distribuite dal Comune, il ponte sul fiume Hon. In qualsiasi cimitero di guerra si vede il passalo. Solo nel cimitero atomico si può vedere il futuro. Ma bisogna affrettarsi a venire a Hiroshima, prima che la finestra si chiuda e il tempo normalizzi la paura. Gli Hibakusha, il popolo della bomba, i superstiti dell'Atomica, stanno invecchiando e morendo in fretta, più rapidamente dei loro coetanei. I più giovani hanno 50 anni, partoriti da donne incinte il 6 agosto 1945, ma non hanno memoria di quel giorno. I più vecchi di rado oltrepassano i 70 anni, che nel Giappone longevo è poco. Chi non è ucciso dalla leucemia, che colpisce quattro volte più spesso i «figli della Bomba» rispetto agli altri, o dai tumori al seno, ai polmoni, al fegato, due volte più frequenti che nel resto del Giappone, è ucciso della segreta, incurabile malinconia che le particelle atomiche piantarono nella loro anima, come gettarono i semi del cancro nel nucleo delle loro cellule. All'Ospedale dei Superstiti, un istituto bruttino ma moderno e capace di 350 letti sempre pieni che il governo giapponese ha finalmente costruito e riservato agli Hibakusha, il direttore sanitario confessa che la sua nemica più grande non è la malattia, ma la tristezza: «La mia fatica più dura è convincere questi vecchi che furono fortunati a sopravvivere». Ci sono moltissimi suicidi, tra i superstiti, mi confessa Tashiro, il cronista esperto di Bomba nel giornale della città, il «Chugoku Shinbun». Hiroshima sta scomparendo, fra i grattacieli del Giappone prospero, sotto il traffico della ricchezza a motore, nella naturale ruota della generazioni che si succedono. Rimangono appena 250 mila Hibakusha, fra quelli di Hiroshima e di Nagasaki, fra chi era nella «Grande Isola», come si traduce Hiroshima, quando scoppiò il «secondo sole» 50 anni or sono, e quelli che accorsero in città subito dopo l'esplosione, per cercare parenti, per portare aiuto, senza sapere che sarebbero stati avvolti dalla radiazione residua. Il Museo della Bomba, costruito da Kenzo Tange e ampliato due anni or sono, resterà sempre al suo posto, come rimarrà eretta la cupola del Palazzo dell'Esposizione Industriale. Ma i musei sono musei, anche quando esibiscono l'orrore. Li ho ben visti, accanto a me nelle sale del nuovo Museo, gli scolari dei licei di Hiroshima e delle altre città.giapponesi portati in gita di classe a vedere le foto, i plastici, i grafici, i reperti anatomici, gli orologi pietrificati sulle 8 e 15, i vetri striati dalla «pioggia nera», le gocce di condensa radioattiva e sudicia che caddero sulla città un'ora dopo lo scoppio, le immagini d'uomo vaporizzate e incise dal sole atomico sui gradini della Banca Sumitomo, a 600 metri daH'xipocentro», dal luogo dello scoppio. Stampati nella pietra come litografie della morte atomica. I musei sono musei e gli scolari sono scolari, anche quelli giapponesi, e li vedo tirare i capelli alle ragazze in gonna plissé e calzétte bianche, fare le boccacce di nascosto al professore che snocciola la giaculatoria delle cifre: capacità detonante effettiva della Bomba, 15 chilotoni, 15 mila tonnellate di tritolo, appena un millesimo della capacità di una bomba H di oggi misurata in milioni di tonnellate di tritolo; quota di esplosione, 580 metri quasi sulla verticale della cupola; 75 mila morti all'istante, 90 mila morti prima che scendesse la notte del G agosto, 140 mila prima che finisse il 1945, metà della popolazione di Hiroshima; 600 mila gradi centigradi di calore nel cuore dell'esplosione, seimila gradi al suolo, abbastanza per bruciare tutto ciò che era combustibile nel rag s*. gio di due chilometri e iljgjtew mezzo; 65 mila edifici fflgffl&i, : % distrutti sul colpo.... Stai pren- dendo appunti, là dietro, Shigeo, guarda che li vedo bakà, somaro? Si professore. 'i ra non molti anni, anche questa esposizione diligente di ustioni, di corpi arrostiti, di unghie cresciute di colpo sulle mani degli irradiali, di enormi criniere spuntate sulla groppa dei cavalli, di fioriture mostruose di piante ed erbacce stimolate dalle radiazioni e sbocciate dalle rovine una settimana dopo la bomba diventerà semplice archeologia o tetra scenografia artificiale, una sorta di Disneyland dell'orrore, senza più anima. Già oggi i bambini fanno fatica a capire. Dicono ' le ricerche degli psicologi giapponesi che una generazione cresciuta fra i mostri immaginari, i Godzilla, gli Zombie, gli Alieni, non ha paura di un tumore che galleggia nella formalina. Per loro questa è brutta tv. Spielberg è più forte di «Little Boy», la bomba di Hiroshima. E' soltanto nella carne e nella voce di chi c'era, che Hiroshima vive ancora e finalmente parla, per chi la vuole ascollare. Era stala fatta troppa retorica sospetta, negli anni del pacifismo da Guerra Fredda, attorno a questi morti di bomba imperialista. Forse anche per questo, molli superstiti giapponesi avevano taciuto. Non parlavano per pudore, per vergogna, o perché impigliati in quella matassa di timidezza, superbia e vergogna che ogni giapponese si porta dentro. La Bomba, le infermità, i cheloidi, le mostruose escrescenze prodotte dalle ustioni nucleari fotografate da Alain Resnais per il suo «Hiroshima Mon Amour», le improvvise prisi di stanchezza che afferrano tutti i superstiti, erano stigmate di vergogna, sconfitta e umiliazione. I testimoni ricordano che intere scolaresche di bambini morirono sotto le macerie gri¬ dantlo con lu loro ultima voce «Tonno Heika Banzaili, Gloria alImperatore. Gufila vergogna paralizzante non era soltanto immagina/ione febbrile di superstiti. Le donne di Hiroshima non trovavano marito, perché gli uomini non volevano mogli profanate dalla bomba. Gli uomini non trovavano lavoro, perche i padroni diffidavano di quelle loro improvvise stanchezze, di quella cagionevolezza invincibile. Alcuni non parlavano «per non essere fraintesi», come ascolteremo uno di loro raccontare, perché la loro storia non venisse strumentalizzata politicamente contro il nuovo amico americano. I «monumenti vivi» di Hiroshima tacevano e morivano, a uno a uno, portando via in silenzio la nostra sola speranza di non ripetere mai più il 6 agosto. Poi, finalmente, è saltalo il coperchio della vergogna. Mettiamo anche questo, se vogliamo, nel conto della Guerra Fredda finita e nella liberazione dal timore di essere schierati nello scontro Est-Ovest, bombe buone contro bombe catti ve. Quattro, cinque anni or sono, il popolo dei lebbrosi atomici ritrovo tutta la sua voce. Non più soltanto i professionisti della Bomba, quelli che si facevano intervistare da tutti i documentaristi, cominciarono a parlare. Uscirono dal buio eleganti signore sessantenni, che avevano sempre mentito e taciuto al marito e ai figli il loro segreto. Parlarono i padri e le madri dei microcefali, i bambini nati deformi, la lesta minuscola, dall'utero di donne irradiale. E' stala come una resurrezione di anime morte, una processione di sfrattali della memoria che rivendicavano il possesso delle loro sofferenze. Accettarono di parlare davanti alle telecamere dei curatori del nuovo Museo perché la loro testimonianza venisse registrata per sempre. Si offrirono di pallugliare volontariamente il Parco della Bomba, qui oltre il ponte a T del mirino, per raccontare, come fanno i vecchi sopravvissuti di un allro Olocausto, Ja loro storia a chiunque la volesse ascoltare. Oggi, le anime ritrovate di Hiroshima tendono gentili agguati ai visitatori nei luoghi strategici dei Parco, tra una foto di classe e una cartellala. Si appostano dietro il tumulo d'erba sotto il quale sono conservate le scatolette di latta con le ceneri di seimila morti. Siedono sulle panchine all'ombra del monumento a Sadako, la bambina di 12 anni che si animalo di leucemia da radiazioni nel 1955 e spero di poter guarire piegando mille fogli di carta nella foggia della cicogna, 'animale sacro che vive mille anni. Ne piegò 1300, ma non bastarono. Fu sepolta con le sue cicogne di carta e oggi il suo monumento è coperto da piccoli origami a foggia di cicogna, mandali da tutte le scuole dell'Impero. Sono «tableaux vivanls», quadri parlanti e pazienti, disposti a raccontare a lutti la storia del loro passato che a ogni istante può diventare il nostro futuro. E anche il somaro là in fondo smette di tirare le trecce alle ragazze, piega la testa e, come noi, ascolta. «Erano da poco passate le 8 del 6 agosto a Hiroshima e c'era il sole...». (1 continua) Vittorio Zucconi Chi è sopravvissuto lo ha fatto da paria, rifiutato dai partner che temevano figli malformati Nel Museo della tragedia del 45 gli anziani testimoni raccontano Ma il cancro elimina i superstiti Per le svagate scolaresche in visita, il luogo si riduce a una Disneyland dell'orrore ldudledd«nfHpmupqdlemlt go, go, sgancia...». Il nostro mondo è costellato di infiniti vulcani spenti della storia: le doline del Carso, i campi della morte in Cambogia, le colline del massacro di Gettysburg, i forni di Auschwitz. Ma Hiroshima è sempre stala qualche cosa di infinitamente più terribile. Il ponte a forma di T, lo scheletro famoso della cupola scarnificala che gli sorge accanto, non sono soltanto un cimitero di uomini, ma il cimitero dell'Uomo, la prima finestra aperta sulla fine del mondo. «Io sono colui che distrugge i mondi» aveva mormorato sconvolto, appena tre settimane prima del bombardamento, Robert Oppenheimer assistendo al test nel deserto del New Mexico. E se le 50 mila bombe termonucleari prodotte da allora sono un numero insensato ovunque lo si legga, se nuovi test nucleari sono una paz- la Bomba» rispetto agli altri, o dai tumori al seno, ai polmoni, al fegato, due volte più frequenti che nel resto del Giappone, è ucciso della segreta, incurabile malinconia che le particelle atomiche piantarono nella loro anima, come gettarono i semi del cancro nel nucleo delle loro cellule. All'Ospedale dei Superstiti, un istituto bruttino ma moderno e capace di 350 letti sempre pieni che il stati avvolti dalla radiazione residua. Il Museo della Bomba, costruito da Kenzo Tange e ampliato due anni or sono, resterà sempre al suo posto, come rimarrà eretta la cupola del Palazzo dell'Esposizione Industriale. Ma i musei sono musei, anche quando esibiscono l'orrore. Li ho ben visti, suolo, abbastanza per bruciare tutto ciò che era combustibile nel rag s*. gio di due chilometri e iljgjtew mezzo; 65 mila edifici fflgffl&i, : % distrutti sul colpo.... Stai pren- Chi è sopravvissuto lo ha fatto da paria, rifiutato dai partner che temevano figli malformati E soltanto nella carne e nella voce di chi c'era, che Hiroshima vive ancora e finalmente parla, per chi la vuole ascollare. Era stala fatta troppa retorica sospetta, negli anni del pacifismo da Guerra Fredda, attorno a questi morti di bomba imperialista. Forse anche per questo, molli superstiti giapponesi avevano taciuto. Non parlavano per pudore, per vergogna, o perché impigliati in quella matassa di timidezza, superbia e vergogna che ogni giapponese si porta dentro. La Bomba, le infermità, i cheloidi, le mostruose escrescenze prodotte dalle ustioni nucleari fotografate da Alain Resnais per il suo «Hiroshima Mon Amour», le improvvise prisi di stanchezza che afferrano tutti i superstiti, erano stigmate di vergogna, sconfitta e umiliazione. I testimoni ricordano che intere scolaresche di bambini morirono sotto le macerie gri¬ numento a Sadako, la bambina d12 anni che si animalo di leucemida radiazioni nel 1955 e spero dpoter guarire piegando mille fogdi carta nella foggia della cicogna'animale sacro che vive mille annNe piegò 1300, ma non bastaronoFu sepolta con le sue cicogne dcarta e oggi il suo monumento è coperto da piccoli origami a foggia dcicogna, mandali da tutte le scuoldell'Impero. Sono «tableaux vvanls», quadri parlanti e pazientdisposti a raccontare a lutti la storia del loro passato che a ognistante può diventare il nostro futuro. E anche il somaro là in fondsmette di tirare le trecce alle ragazze, piega la testa e, come noi, ascota. «Erano da poco passate le 8 d6 agosto a Hiroshima e c'era il sole...». (1 continuaVittorio Zuccon ll fungo atomico e le macerie di Hiroshima Sotto si titolo un orologio cui il calore dell'esplosione ha bloccato le lancette alle 8 e IS di quel 6 agosto del 1945