Il prefetto di Napoli in lacrime «La camorra mi ha cacciato»

Si è dimesso dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per licenze irregolari. «Davo fastidio ai boss» Si è dimesso dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per licenze irregolari. «Davo fastidio ai boss» Il prefetto di Napoli in lacrime «La camorra mi ha cacciato» NAPOLI. Un monologo drammatico, interrotto da una crisi di pianto e da un'invocazione: «Dio benedica Napoli». Umberto Improta, 63 anni, da quattro prefetto di Napoli, se ne è andato cosi, nel modo più rumoroso possibile. Un colpo a sorpresa, il suo, che ha lasciato di stucco tutti, dal sindaco al presidente della Regione, dai responsabili della giustizia a quelli di carabinieri e polizia, convocati all'ultimo momento perché assistessero al «beau geste»: le dimissioni. Improta se ne va tre giorni dopo aver ricevuto un avviso di garanzia dai magistrati della direzione distrettuale antimafia, gli stessi che indagano su una brutta storia di licenze rilasciate irregolarmente ad alcuni istituti di vigilanza della provincia di Napoli. L'inchiesta è molto più delicata di quel che appare a prima vista, considerato il fatto che vi sarebbero coinvolti i clan della camorra e un pugno di politici. Due settimane fa gli agenti della Dia hanno violato il santuario della prefettura perquisendo alcuni uffici. Due funzionari inquisiti, interrogati dal magistrato, avrebbero disegnato uno scenario della vicenda ipotizzando anche un coinvolgimento del prefetto. Ma lui, Improta, non ci sta. Ha fatto di lutto per scrollarsi di dosso il peso del sospetto: l'altro giorno è andato a Roma, al Viminale, per spiegare le sue ragioni. E ora, sconfitto, convoca una conferenza stampa che si trasforma uno psicodramma. Ci sono già tutti, e scro- LA SFIDA ALL'OMERTÀ' PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Storio come questa, a Palermo e chissà in quanti altri posti di frontiera, ormai rischiano di passare inosservato. La mafia non «tira» più. Fa abbassare l'audience, la ggente - assicurano gli esperti della comunicazione - non ne può più di boss e pentiti. Fino a convincersi, piano piano, che la guerra contro Cosa Nostra 6 vinta e, quasi quasi, e arrivato il momento di tronare alla normalità. Quale normalità? Ma quella di prima, naturalmente: quando tutto avveniva in sordina, non finiva sullo schermo della televisione e quindi «non era mai accaduto». La storia di Età e Beta (i nomi finti sono una necessità cautelativa) - due giovani studenti del quartiere Brancaccio di Palermo - è la controprova di quanto il «ritorno alla normalità» possa in effetti fungere da schermo alla sconfitta di una società intera. Se i due ragazzi si fossero fatti convincere a scegliere la «normalità palermitana», un pezzo di quella città sarebbe ora come morta. Età e Beta hanno venticinque anni. Da quasi un anno vivono nascosti, fuori dalla Sicilia, lontano da Brancaccio e dai loro familiari. Un nugolo di agenti e carabinieri li guarda a vista, giorno e notte. Studiano, leggono, ma non hanno contatti con nessuno: non possono intrattenere rapporti coi vecchi amici, coi familiari, con nessuno che possa costituire, anche involontariamente, un tramite per risalire a loro. Sono ufficialmente «scomparsi». No, non pentiti. Non hanno nulla di cui accusarsi. Anzi. Eppure vivono come collaboratori della giustizia, «prigionieri» della paura e in definitiva - di una collettività che non è in grado di difenderli. I ragazzi sono «semplici testimoni»: hanno visto qualcosa (qualcosa di «pesante» che ha attinenza con un omicidio) e l'hanno riferita alla magistratura. Tutta qui, la loro «colpa». Ma a Brancaccio «non si può». Non è possibile agire da comuni cittadini, senza correre il concreto pericolo di essere scannati. Questa è la «normalità» che sfugge all'attenzione genera- sciano gli applausi quando alle 17,30 in punto entra nella sala delle conferenze sventolando quattro pagine dattiloscritte: la lettera di dimissioni inviata al presidente Scalfaro, al capo del governo Dini e al ministro dell'Interno Coronas. «E' in corso un tentativo gravissimo di destabilizzazione, una manovra insinuante e silenziosa della camorra a cui ho dato e sto dando fastidio», sbotta Improta con tono carico di rancore. Poi spiega: «Negli ultimi dieci giorni c'è stata per alcuni funzionari prima, poi per il sottoscritto, l'umiliazione di un'informazione di garanzia per presunti abusi o illegalità. Sono amareggialo, stupito e avvilito per il modo con cui la criminalità riesca a fornire informazioni calunniose, distruggendo l'istituzione prefettizia e gli uomini che ne sono i diritti responsabili». Una staffilala alla magistratura che si sarebbe indirettamente trasformata in uno strumento del crimine organizzato? Improta, a questo punto, corregge il tiro: «I magistrati fanno bene ad indagare, l'avviso di garanzia è un atto dovuto. Sono sicuro che dall'inchiesta emergeranno la mia onestà e i loschi tentativi destabilizzanti della malavita». «Ho dato mollo fastidio», ripete Improta, e parla di «veleni interni ed esterni» che hanno paralizzato la prefettura. Dice che a spingerlo alle dimissioni non è stato solo l'avviso di garanzia, ma un complesso di vicende più o meno oscure che hanno reso impossibile il suo lavoro. «Ho denunciato una quantità di illeciti e accettato di buon grado tutti gli incarichi straordinari che mi sono stati affidati, ma alla fine mi sono trovato a lottare solo contro lutti rischiando anche la vita. Ho tentalo di risolvere il problema delle discariche abusive, ma i sindaci dui Comuni interessati hanno capeggialo rivolle contro di me. Quando ho protestato con il ministero dell'Interno perché mi era stato sottratto del personale ho trovato solo indifferenza e cinismo. E che dire dei parlamentari campani? Invece di schierarsi al mio fianco hanno firmato pile di interrogazioni offensive». «Ora basta, non ne posso più: non sono padre Pio né il Padreterno», grida il prefetto prima di scoppiare in lacrime e fendere la folla attonita, abbracciato alla moglie Angela. Il primo a parlare è il presidente della Regione e senatore di An, Antonio Rastrelli: «Quell'avviso di garanzia rischia di trasformarsi un boomerang: Improta è sempre stalo un punto di riferimento per'le istituzioni a Napoli». Il sindaco Bassolino esprime «umana solidarietà al prefetto» e spera che «l'inchiesta proceda rapidamente». Da Roma il ministro Coronas fa sapere che la «questione sarà esaminala dal consiglio dei ministri». Fulvio Milone Il prefetto di Napoli. Umberto Improta. in lacrime dopo aver annunciato le dimissioni zata e sequestri di persona. Nel marzo dell'88 ottiene la nomina di questore a Milano, dove rimane per un solo anno. La lappa successiva ò Roma, e lì si trova alle prese con il Rial lo di via Poma. L'omicidio di Simonetta Cesaroni è uno dei pochi casi che non riesce a risolvere, e gli resta un po' d'amaro in bocca quando, nel '91, torna du prefetto nella città in cui è nato, Napoli. E' qui che il vecchio poliziotto si trova a dover mediare fra mille problemi e tensioni sociali. Nominato anche Commissario di governo della Re gione Campania, comincia a prendere di mira i consigli co munuli della provincia in odore di camorra, e riesce a farne sciogliere sedici. Poi si occupa del capoluogo sul quale incombe lo spettro di Tangentopoli, e manda a casa l'intero consiglio comunale. Vive da protagonista i momenti più felici della storia recente di Napoli, come il 07. Sfoggia anche doti di mediatore insospettabili in un poliziotto, talvolta attirandosi non poche critiche. Il procuratore della repubblica e il sindaco Bassolino, ad esempio, non gli perdonano un incontro con i contrabbandieri scesi in piazza per protestare contro l'inasprimento delle leggi sul mercato nero delle sigarette, [f. mil.l