AMORE IN OMBRA DI RIVIERE di Giovanni Bogliolo

AMORE IN OMBRA DI RIVIERE AMORE IN OMBRA DI RIVIERE Torna un «adolescente» del '900 TARDIVA e meritata ribalta per Jacques Rivière. Finora nella storia della letteratura francese del primo quarto del secolo figurava solo come un importante comprimario: gli si riconosceva il merito di avere ispirato significativi mutamenti della sensibilità e del gusto, il privilegio di essere stato scelto come interlocutore da alcuni «contemporanei capitali», ma sembrava che la sua personalità si fosse come dissipata in un oscuro lavoro di sollecitazione e di raccordo di cui altri avevano raccolto i meriti oltre che i frutti. Era stato, giovanissimo, a fianco di Alain-Fournier e insieme avevano animato un vibrante dialogo intellettuale e spirituale che era sfociato, per lui, in un saggio premonitore sul Romanzo d'avventura e, per il suo amico, nel Gran Meaulnes, miracolosa sintesi e suggestivo emblema di quella loro irripetibile stagione. Da allora, fino alla morte prematura nel 1925, è sempre stato al centro della vita intellettuale: si è misurato sui temi della letteratura e della fede sui due fronti contrapposti che allora erano presidiati da Claudel e da Gide; è stato tra i primi ad avvertire le implicazioni letterarie delle ricerche di Freud e ad intuire la portata innovativa del lavoro di Proust; è stato, dapprima come segretario e poi come direttore, il principale artefice delle fortune della «Nouvelle Revue Frangaise». Ma non ha lasciato un libro memorabile, né ha mai scritto, come si riprometteva, «le cose bellissime, che irriteranno tutti quanti e che nessuno leggerà». Così, anche se non è mancato a nessuno degli appuntamenti decisivi della cultura e spesso li ha addirittura provocati, nelle foto di gruppo che sono passate nella memoria collettiva è rimasto ogni volta o sfocato o seminascosto da qualche altro più invadente testimone. Nel corso degli anni non sono mancati i tentativi di trarlo da questo ingiusto anonimato postumo: gli omaggi - o agiografici o riduttivi - dei compagni di strada, la pubblicazione di importanti inediti da parte della vedova Isabelle, un libro appassionato di Carlo Bo, una serie di studi di Marcel Raymond. Ma, fuori dalla schiera degli specialisti, il nome di Rivière non ha mai circolato. Ora però un grande biografo e divulgatore come Jean Lacouture gli dedica un volume di più di seicento pagine [Une adolescence du siede. Jacques Rivière et la Nrf, ed. du Seuil) che non solo lo reintegra nel ruolo fondamentale che ha avuto nella cultura del suo tempo, ma assume la sua intelligenza, le sue inquietudini e il suo fervore a simbolo dell'adolescenza dell'intero secolo. Personaggi in libertà Parallelamente da noi torna, nella limpida traduzione che ne aveva offerto Niccolò Gallo, Aimée (Ed. Sestante, pp. 194, L. 18.000, postfazione di Massimo Raffaeli), l'unica opera creativa portata a termine e pubblicata da Rivière. E' un romanzo che, per conciliare i principi del «romanzo d'avventura» con la lezione di Proust, lascia i personaggi liberi di muoversi secondo l'evolversi degli eventi e della loro natura, ma pone ogni loro pensiero e ogni moto del loro animo sotto un'implacabile lente d'ingrandimento. Gli eventi esterni, quelli che di solito costituiscono la trama di un romanzo, sono pressoché inesistenti: Frangois, marito di Marthe, s'innamora di Aimée, la moglie del suo migliore amico Georges e, dopo una corte serrata e inconcludente, torna rasserenato all'ovile. In compenso quelli interiori sono fittissimi: Frangois, che racconta alla prima persona dell'indicativo imperfetto, analizza con spietata minuzia il proprio inappagamento di marito troppo amato ma morbosamente incapace di amare la felicità, la stucchevole perfezione di Marthe, che gli dispensa serenità e calore invece dei dolori e delle incertezze di cui avrebbe bisogno, il miracoloso profilarsi e poi il progressivo disvelarsi dell'enigmatica Aimée (che di incertezze e dolori gliene riserva in abbondanza e il quotidiano, altalenante manifestarsi della sua passione per lei, le parole dette, quelle taciute, i retropensieri, la logorante ricerca del significato recondito di un atteggiamento, di un gesto, della battuta più innocente e occasionale. Non è un grande romanzo. E' statico, verboso. I personaggi, invece di agire, pensare e sentire, studiano le proprie azioni, i propri pensieri, i propri sentimenti, si contemplano, si specchiano l'uno nell'altro in un delirio narcisistico che non trova appagamento possibile. Dopo averlo letto, Gide confessava di essere stato sul punto di prendere la decisione di non scrivere mai più all'imperfetto. Ma illustra in maniera esemplare una stagione del romanzo francese stretta fra le ambizioni classicheggianti della Nrf e la vertigine introspettiva di Proust e mette a nudo l'accesa sensibilità di Rivière. C'è così tanto di lui nel personaggio che parla in prima persona - e non soltanto perché il romanzo adombra la casta passione che lo scrittore nutrì per Yvonne, la moglie dell'amico Gaston Gallimard che per definire il suo segreto di critico simpatetico e recettivo non si possono trovare parole più esatte di quelle con cui Frangois descrive le ragioni del proprio insuccesso in amore: «Non riuscivo a far presa, né a volgere a me l'oggetto del mio desiderio; gli vagavo intorno, lo sfioravo con mille carezze mentali, ma nello stesso tempo mi adattavo ai suoi contorni e ne prendevo la forma invece di dargli la mia». Giovanni Bogliolo