VIDEOPROUST di Liliana Madeo

Attualità Attualità DEOPROUSl 1 Bertolucci nella camera della Recherche Un documentario Anni 60 del pochi: «Quando lo vide il duro Roberto Longhi pianse» quello - «Longtemps je me suis couché de bonne heure» - mi parve una sinfonia senza fine. Quella descrizione, da poeta e da grande scienziato insieme, della siepe di biancospino mi faceva pensare alla mia casa di Baccanelli. Non riuscivo a distaccarmi da quello strano romanzo in cui la differenza fra biancospini bianchi e rosa era importante come un campo di battaglia in Tolstoj o in Omero». A Panna, e a Salsomaggiore che negli anni Venti e Trenta era una condanna della seconda parte del libro. Importantissima per me». La struttura del libro, come si vede, è tutt'altro che secondaria al tema. Il che non ha impedito a un grande editore francese di chiedere a Bourdin se non era possibile «sfrondarlo» della prima e della terza parte, e pubblicare solo la seconda, la cronaca bruta della malattia, la prova effettiva. «Per me il lavoro letterario, minuzioso, lungo, è stato il significato stesso del libro. Ho rifiutato immediatamente la proposta di quell'editore». Bourdin sta scrivendo ora di nuovo. Per La discesa la decisione di «fare della malattia letteratura» com'è avvenuta? «Ero destinato comunque alla scrittura. Scoprirmi malato ha coinciso con un altro choc: leggere i libri dell'Aids di Hervé Guibert. Un autore di cui conoscevo i libri precedenti, quelli senza la malattia. Mi sono riconosciuto. Dopo molto tergiversare, Guibert è stato per me lo sblocco: ho capito che non aveva senso per me scrivere non parlando del mio male. Non potevo astrarmi, scindere. Ho capito così che era possibile trasformare la malattia in letteratura. Avevo con me Le cose di Perec, la Modificazione di Butor e la Ricerca di Proust. Sono partito di lì. Sapevo che potevo aprirli in ogni momento e leggere. Ho cominciato a scrivere». Bourdin ha 31 anni. Convive con l'Aids da che ne aveva 20, l'intera sua vita da adulto. «Non mi trovo diverso, adesso, da quello che avevo voluto fuggire», si legge nella Discesa. «Simile a un figliol prodigo che, dopo una lunga assenza rientra a casa e ritorna al punto di partenza rivedendo gli oggetti familiari che aveva lasciato solo provvisoriamente. Come, a volte, si indossa un vecchio vestito che si credeva ristretto. Che si ignorava si sarebbe potuto portare sempre». Gabriella Bosco pure fra i raffinati letterati che vivevano a Panna l'amore per Proust dilagava. «Compativo chi non lo leggeva. Ma provavo anche grandi rabbie, come quando Borgese, che era il numero uno della critica letteraria del Corriere della Sera, definì la Recherche "il miele del sonno", cioè un libro che faceva dormire, un materiale immenso privo però di costruzione». E' un amore, il suo, che non ha conosciuto cedimenti. Andò a IIliers-Combray la prima volta nel '53. Ungaretti gli aveva fatto vincere una vacanza-premio a Parigi. La moglie Ninetta non potò partire. Per questo, invece di un mese, rimase in Francia una settimana soltanto. Ma accurata fu la visita che fece alla villetta di Elisabeth Amiot, modello della «tante» Léonie. Ecco dei due campanelli - quello dal suono stridulo che dava angoscia a Marcel: lo usava Swann, gli annunciava che non ci sarebbe stato per lui quella sera il bacio della buona notte della mamma. Ecco la sua stanza da letto, con le alte cortine bianche, le campane di vetro con l'orologio e i fiori finti, la poltrona dalla stola a roselline. L'amico francese che lo accompagnava non poteva credere che non ci fosse mai stato. «Per tagliare corto gli dissi: "Ma certo, in sogno..."». Ci è ritornato nel '66. Dirigeva una trasmissione tv, L'Approdo. «Per una volta volli dedicare tutta la serata a un tema, Proust, e volli firmare il documentario». Una piccola troupe partì in macchina. «Io e Ninetta - se non c'era lei non ne avrei fatto niente - prendemmo la littorina, per vedere questa piccola città così come appariva a lui quando ci arrivava. La stanza di zia Léonie e delle "madeleines" della domenica mattina, il giardino, "le petit cabinet sentant l'iris" che era il celebre ville d'eau, trovò gli altri volumi della Recherche. La lettura di Proust era diventata per lui un vizio. Cercava di «contagiare gli amici», primo fra tutti Pietro Bianchi che nel '32 avrebbe chiesto a Gallimard i diritti per una traduzione: nessuno dall'Italia si era ancora fatto vivo mentre già circolavano le traduzioni in inglese e tedesco. «Al liceo un professore, Ugo Betti, di questo mio innamoramento diceva: "Passerà. E' come il morbillo, una malattia dell'adolescenza"». Nep¬ STORINO E è vero, come spiega in Figli di Sara e Abramo (Frassinelli, pp. 206, L. 26.500), che «un cognome ebraico la dice lunga su chi lo porta, è un papiro più che un segno di riconoscimento», da quale passato emerge Elena Loewenthal? «Le mie radici affondano in Germania. Nel Settecento ci chiamavamo Levi. Dopo l'Emancipazione - fu Napoleone a travolgere i ghetti - diventammo "la valle dei leoni": sì, questo significa Loewenthal». Una carta d'identità intonata al magistero di Rabbi Matja' ben Charash: «Sii una coda di leone, anziché una testa di volpe» (traduzione: meglio discepolo di un sapiente che maestro di un ignorante, nel primo caso si aggiunge sempre qualcosa al personale sapere, nel secondo si corre il rischio di impoverirsi). La signora, trentacinquenne, sposata con un israeliano-polacco, ha tre figli, due femmine e, ultimo, un maschio, rivelatosi un non facile esame di obbedienza alla Tradizione: «Ho un conto aperto con Abramo. Lo alimentano la circoncisione (un autentico dramma per la madre) e Sara, tenuta all'oscuro del sacrificale disegno divino su Isacco. Secondo alcuni sarebbe morta di dolore una volta messa al corrente da Satana. Secondo altri morì di gioia una volta sfumato il pericolo». Abramo, ivrì, ossia «colui che sta dall'altra parte». Sara, ovvero la fonte dell'umorismo ebraico (ride di se stessa quando, ultranovantenne, viene a sapere che genererà un figlio), il vilz che consente di non soccombere, di «esistere» di là del muro. Figli ii Sara e Abramo è la terza prova di Elena Loewenthal, dopo Favole della tradizione ebraica e II libro di Eldad il danita, la quarta è in arrivo per i tipi di Einaudi, nei Millenni {Mistica ebraica, un'antologia curata con Giulio Busi). «Infine ho accolto il suggerimento dell'editore. Non è stato facile rinunciare al titolo subito immaginato, L'esilio e il filo d'olio, l'esilio che si è ac- rifugio segreto dell'ombroso Mar cel.Te boiseries, il padiglione neogotico del giardino: tutto ritrovavamo e conoscevamo. L'operatore girava, r. io mi sentivo a casa. Poi andammo a Parigi e comprammo dalla televisione francese le interviste agli amici di Proust, alla governante che lo assistè fino alla fine, ai personaggi del suo mondo. A Roma montammo questo materiale con miei raccordi e brani del romanzo, letti da Romolo Valli e Giorgio De Lullo. A via del Babuino mostrai il filmato, fra gli altri, a quel cuore di pietra che era Roberto Longhi, il mio maestro: alla fine aveva le lacrime agli occhi. Il programma andò in onda il 26 maggio di quell'anno. E' miracolosamente sopravvissuto all'incuria. Ora toma, restaurato». Di promuovere Proust non si stanca. Nel '76, per una collana di audiolibri diretta da Vittorio Sereni, altro strenuo proustiano proprio da lui «contagiato», curò Per legge re Proust-I* intermittenze del cuo re. Mai, invece, ha incoraggiato gli infiniti tentativi di portare sulle scene o sullo schenno il romanzo. Ci pensarono Valli e De Lullo, Visconti, Flaiano, Barrault, Pinter. «Le sollecitazioni a collaborare sono state molte e insistenti. Tutti i progetti sono sempre naufragati, giustamente. Quella è una cosa che non si può fare» scuote il capo. Neppure dalla tentazione di fare letteratura sulle onne di Proust, è stato mai toccato: «Quelli che ci hanno provato, hanno sempre fatto fiasco» dice. Proust, per lui, resta «un eroe». Da conoscere davvero, non solo da citare: «Se esistesse un vero sindacato degli scrittori, dovrebbe esserci questa regola: puoi iscriverti, se hai letto tutta la Recherche». Liliana Madeo

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