Da Auschwitz a Sarajevo la sofferenza non ha classifiche

Da Auschwitz a Sarajevo la sofferenza non ha classifiche polemica. Bettiza replica alle critiche della Comunità ebraica Da Auschwitz a Sarajevo la sofferenza non ha classifiche T] noto che polemizzare è / più facile che giudicare. Purtroppo da alcuni autorevoli rappresentanti Ideila Comunità ebraica italiana', come Tullia Zevi e Giuseppe Laras, rabbino capo della comunità milanese, è stato scambiato per facile polemica quello che era soltanto un mio assai tardivo e molto angosciato tentativo di mettere il dito sull'ambiguità d'atteggiamento, non di tutti gli ebrei, ma di certi importanti ebrei nei confronti del massacro compiuto dai serbi ai danni delle popolazioni musulmane in Bosnia. Leggo che Tullia Zevi mi dà addirittura del bugiardo sul Corriere delia Sera. Più prudente, il rabbino Laras taccia i miei «rimproveri» come «generici e superficiali». Dirò subito di che si tratta. Durante una recente presentazione, al Circolo della Stampa di Milano, del libro Ebrei invisibili (Mondadori), documentatissima indagine storica sugli israeliti nell'Europa Orientale dal nazismo e dal comunismo fino al post-comunismo, al quale hanno lavorato per cinque anni due coscienziosi ebrei italiani, Gabriele Eschenazi e Gabriele Nissim, l'ultimo dei due ha voluto espressamente riconoscere che la mia «è una delle poche voci in Italia che ha preso posizione sul dramma bosniaco invitando a distinguere tra aggressori e aggrediti». Dato il tema della serata, era chiaro che Nissim intendeva riferirsi all'ultimo genocidio europeo, pudicamente definito «pulizia etnica» dai serbi e dagli europei che vi assistono pressoché indifferenti, che si consuma da alcuni anni sotto i nostri occhi al di là dell'Adriatico. Sottolineava Nissim che si possono comprendere ancor meglio i meccanismi della «zona grigia» nell'Est europeo attorno al precedente genocidio ebraico, guardando alla «nostra indifferenza odierna» noi confronti della tragedia umana che si compie sulla pelle dei musulmani nella vi- cina ex Jugoslavia. Alle giuste osservazioni di Nissim, che ha parlato, oltreché da ebreo, da studioso delle infernali macchine genocide, io mi sono sentito in dovere di rispondere che purtroppo fra i molti indifferenti, che da ogni parte del mondo contemplano in stato d'incertezza e d'ambiguità l'Olocausto musulmano e la sanguinaria ghettizzazione di Sarajevo, ci sono anche eminenti personalità ebraiche. Ne ho citate, ad esempio, duo: Wiesenthal e Wiesel. Il primo, che una trentina d'anni or sono, quando iniziava la sua rocambolesca caccia ai criminali nazisti, avevo presentato con una lunga intervista ai lettori della Stampa, è stato di recente assai evasivo nel giudizio sui campi di concentramento riaperti dai serbi in Bosnia in forme più rozze, ma non meno genocide nell'intenzione, di quelle usate dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Per Wiesenthal non si trattava di campi di sterminio paragonabili a Buchenwald o ad Auschwitz: non si trattava insomma di un genocidio di prima categoria, ma di ca- tegoria inferiore. Quanto al premio Nobel Wiesel, scrittore israeliano reduce dai campi della morte nazisti, circa due anni fa ha voluto recarsi in Bosnia per controllare di persona ciò che vi accadeva. Come si sia poi comportato Wiesel non lo dico io, ma il noto giornalista di Sarajevo, Zlatko Dizdarevic, che in un suo impressionante diario pubblicato in Italia nelle Edizioni Sellerio scrive all'incirca: «E' comparso fra noi il Nobel Wiesel. Poi è scomparso. Si è trasferito fra i serbi di Pale ed è stato accolto con tutti gli onori dal massacratore Karadzic. A Pale è rimasto per diversi giorni e non l'abbiamo più rivisto». Oggi sappiamo tutti che il tribunale internazionale dell'Aia ha avviato contro Karadzic un procedimento penale per crimini di guerra. Perché tanta equidistante neutralità, tanta evasività, da parte di eminenti sopravvissuti della Shoà ebraica? Io penso che nessun popolo, neanche quello ebraico, che pure è stato quasi sradicato dall'Europa orientale, abbia diritto al monopolio della sofferenza in un secolo che è co- minciato col genocidio degli armeni, che è proseguito col genocidio «sociale» di 30 milioni di contadini russi e ucraini durante le collettivizzazioni forzate staliniane, che si è industrializzato con lo sterminio di sei milioni di ebrei, e che infine sta terminando con il genocidio artigianale dei musulmani in Bosnia e dei ceceni in Russia. Tutti, ebrei armeni russi ucraini bosniaci ceceni, hanno diritto alla stessa memoria e alla stessa umana pietà per quello che hanno subito e che tuttora subiscono. Sarebbe davvero orrendo classificare e suddividere la sofferenza in categorie privilegiate e subcategorie secondarie. Anche i serbi, che nella seconda guerra hanno subito un ten¬ tativo di genocidio da parte degli ustascia di Pavelic, hanno diritto alla comprensione e alla compassione. Essi però oggi non possono avere alcun diritto alla vendetta contro i croati in quanto popolo, per il solo fatto che Pavelic era croato come lo era Tito, o contro i musulmani slavi di Bosnia, per il solo fatto che erano musulmani i turchi che, dopo la battaglia del Kossovo del 1389, assoggettarono per cinque secoli la Serbia. Lungi da me, che nella mia vita ho avuto tanti amici ebrei d'ogni ceto e nazionalità, l'idea di volerli e poterli considerare come un tutto unico, senza varianti di civiltà, di ideologia, di personalità individuale. Soltanto un antisemita incallito e stu- pido può vedere nell'ebraicità una categoria indifferenziata e compatta in se stessa. Ogni ebreo, come ogni cristiano, ogni musulmano, ogni nero, vale per quello che è, e risponde per le azioni buone o cattive che intraprende. Il vero rifiuto del razzismo è nel riconoscimento della varietà all'interno di ogni razza umana. Non esiste, non può esistere, quindi, una generalizzata «indifferenza» ebraica nei confronti del genocidio in Bosnia. Posso citare, ad esempio di quanto affermo, i nomi di alcuni coraggiosi intellettuali ebrei francesi, Francois Fejtò, Bernard-Henri Lévy, Glucksmann, Finkielkraut, Edgar Morin, dalle cui penne è uscita fin dal 1991 la verità sulla tragedia jugoslava: la verità su chi ha aggredito e chi è stato aggredito. Essi, dal primo colpo di cecchinaggio sparato dalle alture del monte Igman, hanno subito capito che la tragedia di Sarajevo non è dissimile ma simile nella sofferenza a quella del ghetto di Varsavia. Enzo Bettiza Wiesel e Wiesenthal, perché così evasivi e ambigui verso l'Olocausto bosniaco? A destra, Gabriele Nissim e Gabriele Eschenazi Sopra, due immagini di ebrei nell'Europa dell'Est