Pechino: pronti alla guerra di Taiwan di Domenico Quirico

Furibonde reazioni alla visita «privata» del leader di Taipei negli Stati Uniti Furibonde reazioni alla visita «privata» del leader di Taipei negli Stati Uniti Pechino: pronti alla guerra di Taiwan Attaccati dagli Usa, come in Corea e Vietnam» « TAIPEI_ DAL NOSTRO INVIATO Chiang Kai-shek squadra le comitive chiassose e un po' distratte che affollano ogni giorno il suo fastoso mausoleo sfoderando un sorriso da Budda enigmatico e ambiguo, fuso in tonnellate di bronzo. Chissà se sarebbe contento, questo antico signore della guerra sopravvissuto a mille sconfitte, del viaggio «privato» negli Stati Uniti del suo successore, Lee Tenghui. Forse no, lui i presidenti americani li riceveva trionfalmente qui, nella sua isola fortezza, il petto coperto di medaglie. L'attuale presidente, invece, è sbarcato in America dalla porta di servizio, con il sotterfugio di tenere un discorso nella sua vecchia università californiana, trasformata in uno stadio da una folla entusiasta di taiwanesi emigrati negli Stati Uniti. Nessun rappresentante ufficiale del governo americano lo ha avvicinato, il visto gli è stato concesso come «turista», la finzione diplomatica che conosce una sola Cina, quella di Pechino, e fa di Taiwan ufficialmente un'isola di fantasmi è salva. Eppure, dall'altra parte dello Stretto arrivano da giorni voci rabbiose, parole che non si udivano da anni: è un atto di guerra, che equivale all'aggressione americana in Vietnam e in Corea, urlano i signori della Città Proibita. E minacciano di bloccare tutto il faticoso processo di disgelo celebrato all'insegna del comune motto: «arricchiamoci». Per quasi mezzo secolo Pechino e Taipei sono stati divisi su tutto meno che su un particolare: la certezza speculare che la separazione fosse provvisoria. Paradossalmente, proprio adesso che la Cina comunista va a scuola da Taiwan, l'isola è tentata dal consumare un definitivo divorzio. Acquattata in un angolino della Storia è diventata ricca e democratica. Perchè restare legata a un pianeta povero, e per di più incapace di addomesticare la sua natura dispotica? Certo la parola «indipendenza» anche a Taipei resta tabù. Perfino nei sondaggi le girano attorno usando arzigogolate formule rituali: siete favorevoli o no alla riunificazione? Ma i dati, dietro le ritrosie terminologiche, sono chiari: solo un 13% di irriducibili vuole correre il rischio. Il primo passo verso il futuro è stato la richiesta di un seggio alle Nazioni Unite. Al ministero degli Esteri avvolgono il progetto di infinite cautele: «La storia è ricca di Paesi divisi, come le due Germanie. Cercare di trovare una soluzione non pregiudica una futura riunificazione». Sono parole che il nazional-comunismo di Pechino non può e non vuole ascoltare: Taiwan è una provincia, il massimo che può concedere è la formula «un Paese, due sistemi». La foglia di fico con cui ha coperto l'encomiabile errore ideologico delle zone economiche speciali e con cui riporterà a casa Hong Kong. Ma Taiwan non è più l'imbalsamato bunker dei dinosauri del Kuomintang. Il partito d'opposizione, il «Democratic Progressive Party», uscito dalle catacombe dopo la liberalizzazione accelerata, alle Amministrative ha conquistato città importanti, compreso Taipei. Joyce Chang, che dirige il settore esteri, non usa metafore: «Il Kuomintang ha occupato l'isola. Quelli che sono venuti con Chang ora sono vecchi o sono morti, le nuove generazioni sono state all'estero, hanno idee diverse. Abbiamo tutte le condizioni richieste dalla carta dell'Onu alle ex colonie per avere un seggio. Siamo di fatto separati dalla Cina da un secolo». Il trucco è semplice: marciare verso l'indipendenza ma a piccoli passi, in silenzio, senza dirlo. Per questo Pechino ha ripreso a gridare. Domenico Quirico

Persone citate: Chiang Kai-shek, Joyce Chang