Il Viminale della discordia di Augusto MinzoliniGiorgio Lombardi

■[Viminale della discordia ■[Viminale della discordia Brancaccio lascia, ballottaggio a tre I DUBBI DI DINI P ROMA ALAZZO Chigi al mattino. Nelle stanze dei bottoni che governano il Paese il presidente del Consiglio, Lamberto Dini, scopre che il suo approccio alla politica è diverso da quello del suo ministro Guardasigilli, Filippo Mancuso. La notizia che il ministro della Giustizia sta per inviare di nuovo gli ispettori alla procura di Milano ha fatto riesplodere le polemiche sul governo e i due stentano a trovare un'intesa per evitare il peggio. Raccontano che alla «real-politik» del primo ministro, Mancuso ha risposto con un lungo ragionamento sui «principi» e sulle «forme». Narrano anche che Dini ha invano consigliato prudenza al suo ministre. «Questa ispezione - gli ha ripetuto il Guardasigilli per più di tre quarti d'ora - non posso non farla, sarebbe una sorta di omissione di atti d'ufficio: commetterei un reato». E alla fine a Dini, che con il tempo è diventato un maestro di «compromessi» e «ghirigori», non è rimasto che trovare la solita mediazione buona per accontentare il ministro, per salvarsi la faccia e per calmare gli animi di quei partiti - dal pds alla Lega - che sostengono il suo governo. Sulla procura di Milano - è il messaggio pilatesco diramato da palazzo Chigi e accreditato a Mancuso - non è in corso un'ispezione ma solo delle «attività conoscitive». Palazzo Chigi alla sera. Quanto 6 difficile trovare un nuovo ministro dell'Interno. Dopo aver avuto a che fare con il ministro della Giustizia, il presidente del Consiglio se l'è dovuta vedere con il Quirinale. Da qualche settimana tra i due palazzi più importanti della politica va avanti una lunga trattativa per decidere il successore di Brancaccio. Ieri, con le dimissioni dell'interessato, la questione si è fatta incandescente. E sul punto di decidere, tutti le varie candidature sono state azzerrate. E' saltato il nome di Antonio Maccanico perché, secondo Dilli, «troppo colorato politicamente». E' venuto meno quello di Giuliano Amato per lo stesso motivo e in più perché l'interessato si è reso indisponibile. E' rimasto nell'aria quello dell'ex-presidente della Corte Costituzionale, Casavola, che piace a Scalfaro e ha qualche «chance». E alla fine - almeno sembra - Dini è riuscito ad imporre il suo punto di vista, quello di salvaguardare l'impronta «tecnica» del suo Governo: il successore di Brancaccio dovrebbe essere un «non-politico». Così, in un florilegio di nomi, in serata ha fatto capolino la candidatura dell'attuale sottosegretario Gugliemo Negri, ma, soprattutto, quella di Giorgio Lombardi, ordinario di diritto costituzionale a Torino ed ex-membro del Csm. Già, un ministro che se ne va, un ministro che arriva e un altro che rimane. Mentre lo scenario della Giustizia è sconquassato dagli accadimenti, mentre i miti di Tangentopoli rischiano di finire nella polvere come le loro vittime, la Roma politica è tutta attenta ad una girandola di nomi. E, come avviene nei casi in cui c'è un ministro da sostituire e un altro «bizzoso» da calmare, le due vicende hanno rischiato di intersecarsi. Motivo? Come è avvenuto tante volte in passato durante l'epopea democristiana qualcuno ha proposto di usare il «metodo» degli spostamenti, cioè quello di «promuovere» Mancuso agli Interni, lasciando libero per un personaggio «più calmo» il ministero di via Arenula. Un'idea proposta ieri mattina da D'Alema a Dini e accarezzata dal Quirinale. «Può essere un'ipotesi ha ammesso a metà pomeriggio, Massimo Brutti, esponente del partito dei giudici nel pds - da prendere in considerazione». Ma la cosa non è piaciuta allo schieramento di centro-destra che dal mattino ha fatto quadrato intorno a Mancuso. «Ma che scherziamo!», è insorto Alfredo Biondi. E, soprattutto, il tentativo si è trovato di fronte la caparbietà di Mancuso. «Io - ha spiegato il ministro ai suoi collaboratori - non mi muovo da qui. Se Dini e Scalfaro vogliono le mie dimissioni debbono chiedermele e, soprattutto, debbono mettermi per iscritto il perché». E' proprio vero al peggio non c'è mai fine. Ormai la Giustizia è diventata terreno per scontri tra gruppi. E forse la parola fine sul governo Dini tra qualche mese sarà messa proprio prendendo spunto da questo argomento. Ieri, infatti, dalle parole di esponenti pidiessioni come Salvi e Bassanini, questa possibilità è venuta allo scoperto: il «caso» Mancuso che per tanti motivi non può essere dirompente oggi, potrebbe diventarlo domani. Del resto la Giustizia è diventata una questione dirimente per gli schieramenti politici come non mai. In Parlamento, ad esempio, il nome di Mancuso suscita profonde antipatie e grandi amori. Quel ministro che annuncia di essere «minacciato di morte», infatti, fa sognare personaggi come Biondi («lui è stato un procuratore generale e con gli altri pm si comporta come un papà che vuol sapere se i suoi figli sbagliano»), mentre, a sinistra, personaggi come Ayala lo giudicano «matto come un cavallo». Gli stessi odii e gli stessi amori che suscitano gli uomini del «pool» di Milano. Per i progressisti sono ancora degli «intoccabili», mentre sull'altro versante «no». «Qui siamo al paradosso - se la prende Previti qualche giornalista mi ha detto che qualcuno dice che ci sono io dietro alle inchieste su Di Pietro. Ma siamo matti! Io non so niente e se qualcuno prova a dirlo potrei avere una reazione violenta, come quella che ho avuto nei confronti del senatore Passigli che ho portato in tribunale per aver detto una cosa del genere. La cosa importante non è sapere da dove vengono queste cose che si dicono su Di Pietro, ma se sono vere. Del resto erano cose che il settimanale II Sabato aveva pubbli- cato e che Borrelli in una conferenza stampa aveva trattato alla stregua di scemenze e stupidaggini». Eh sì, non c'è cosa che divida questo Paese più della Giustizia. Può mettere in pericolo un governo, condizionare la nomina di un ministro e distruggere un mito in poco tempo. Già, cosa può impressionare di più l'opinione pubblica di un'indagine su Di Pietro che coinvolga allibratori di san Siro dai soprannomi improbabili come «Roby», «Roccia» o il «Farmacista»? La Giustizia è un argomento incandescente, alla vigilia di un'altra campagna elettorale forse addirittura più drammatica di quella pas¬ sata. Ieri lo stesso Scalfaro ha spiegato a Cesare Proviti che è andato a trovarlo: «Voi sapete che ad ottobre si potrebbe andare al voto. Non è che farete storie? Per andare avanti dovete mettere insieme un programma di governo con dentro dei punti seri e appoggiato da un'ampia maggioranza. Se, invece, si vuol dar vita ad un governo solo per rinviare, tanto vale andare alle urne». Ma forse prima di andare al voto sarebbe necessario «raffreddare» questa guerra sulla Giustizia che divide partiti, giudici, ministri, istituzioni e Paese. Augusto Minzolini Il pds: sia promosso il guardasigilli Il magistrato: no, resto alla Giustizia li presidente del Consiglio Lamberto Dini A sinistra: Antonio Brancaccio A destra: Giorgio Lombardi

Luoghi citati: Milano, Roma, Torino