Quel vetro gotico luce e ombra di Dio

Quel vetro gotico luce e ombra di Dio Quel vetro gotico luce e ombra di Dio ALLA stazione ferroviaria di Disneyland le finestre non sono chiuse da vetri trasparenti, ma da vetrate colorate che rappresentano fiabeschi castelli medievali. Anche nell'America tecnologica le vetrate sono tornate di moda, ma nell'immaginario collettivo continuano a evocare il Medioevo, l'epoca in cui quell'arte raggiunse esiti mai più eguagliati in seguito - meno che mai, purtroppo, dalle vetrate neogotiche dell'Otto e Novecento. L'opera di Enrico Castelnuovo pubblicata pochi mesi fa e accolta dal pubblico con immediato favore, tanto che la prima tiratura è esaurita e il volume mentre scrivo è introvabile, permette di capire perché l'arte delle vetrate abbia conosciuto proprio nel Medioevo tanta fortuna. Nei secoli d'oro della civiltà medievale, dopo il Mille, quando i teologi esaltavano la luce e la definivano l'ombra di Dio, gli architetti, capomastri, pittori e vetrai che collaboravano nei cantieri delle cattedrali impararono, in un fitto scambio di esperienze, a costruire non solo con la pietra, ma con la luce, impiegando la vetrata non come un'aggiunta ornamentale, ma come un elemento portante dell'edificio in costruzione. Castelnuovo rievoca appunto la complessa sapienza tecnica e artigianale che presiedeva alla, creazione delle vetrate. Si sa che gli storici dell'arte, al giorno d'oggi, sono sempre più attenti alle intenzioni della committenza e all'organizzazione del lavoro nelle botteghe, e proprio su questa linea si snoda l'analisi, ripercorrendo una dopo l'altra, tutte le fasi del procedimento. Viene innanzitutto la produzione del vetro, condotta dai mastri vetrai con metodi artigianali, fondendo ad altissime temperature sabbia di fiume e ceneri vegetali, ma in quantità che possiamo ben definire industriali: le vetrate della cattedrale di Chartres richiesero da sole circa 20 tonnellate di vetro. L'opera dell'artigiano s'incontra con quella dell'artista quando il pittore e il vetraio, disegnata l'immagine a grandezza naturale su una tavola di legno, compongono su di essa la vetrata, disponendo e tagliando i pannelli di vetro. Il pittore interviene poi con la vernice, sfumando e alterando i colori, accentuando i contorni, aggiungendo i lineamenti, prima che la cottura in forno concluda l'opera fissando le tinte. Ma il lavoro non è ancora finito, giacché occorre saldare col piombo i diversi frammenti di vetro, senza alterare il disegno e anzi, se possibile, assecondandone l'effetto, prima che la vetrata possa essere innalzata nel vuoto e ancorata al muro con un'armatura di ferro. L'officina, prima della cattedrale, è dunque il luogo in cui Castelnuovo conduce di preferenza il lettore: ed è naturale che la sua indagine si arresti all'inizio del Trecento, quando nuove tecniche di fabbricazione del vetro, in pannelli di formato più grande, e soprattutto l'introduzione di nuovi coloranti modificarono profondamente il lavoro della bottega e il risultato artistico cui miravano i maestri. A questa analisi tecnica si accompagna nella seconda parte del volume una vastissima analisi stilistica. Forte di una completa ricognizione geografica, e sulla scorta di oltre trecento illustrazioni in buona parte a colori, Castelnuovo propone un percorso attraverso il patrimonio di vetrate medievali ancor oggi esistente, sceverando l'autentico da'le aggiunte successive, datanao ogni rosa e ogni finestra, paragonando le scelte iconografiche dei vari ateliers, collegando opere e cicli diversi per suggerirne l'attribuzione. C'è spazio, in questo itinerario, anche per l'Italia, e non solo per le opere di maestri transalpini chiamati a lavorare nella penisola, come quelli che produssero le vetrate duecentesche di Assisi, ma anche per quelle dei grandi pittori italiani, come Duccio di Buoninsegna, autore di una rosa del Duomo di Siena. Nel complesso, tuttavia, l'Italia occupa uno spazio periferico nella geografia delle vetrate medievali, rispetto alla Francia e alla Germania. Il fatto stesso che i pittori italiani, di regola, si limitino a preparare i cartoni per le vetrate, senza intervenire nel lavoro dell'officina e dunque senza sfruttare fino in fondo le caratteristiche tecniche del materiale, tradisce lo scarso interesse dei nostri maestri per quell'arte, meno facilmente integrabile, forse, nelle forme architettoniche in uso nella penisola. Che del resto la vetrata fosse una tradizione d'Oltralpe, lo lamentava già Torquato Tasso nel 1572, al ritorno dalla Francia, quando osservava che laggiù l'arte del vetro era impiegata in onore di Dio, mentre in Italia serviva soltanto a frabbricar bicchieri «per delicia de' bevitori». Ma a quella data la grande stagione delle vetrate era sul punto di concludersi in tutta Europa, e non per colpa dei pittori, giacché le vetrate del Quattro e Cinquecento sono oggi pienamente rivalutate dalla critica. Per uno di quei rovesciamenti non rari nella storia della cultura, proprio i fattori che avevano determinato la fortuna della vetrata del Medioevo stavano per provocarne l'eclissi. Interi complessi, incorporati nelle cattedrali dell'Europa settentrionale, vennero smantellati e distrutti nell'età della Riforma, quando l'iconoclastia protestante volle liberare i templi da ogni sospetto di idolatria. L'amore per la luce indusse già alla fine del Medioevo, e poi in modo generalizzato fra Sei e Settecento, a sostituire le vetrate con vetri trasparenti, per garantire agli interni delle chiese una maggiore luminosità. Infine, proprio il carattere artigianale dell'arte vetraria, la necessità che alla fabbricazione collaborassero specialisti di tecniche diverse e per lo più meccaniche, ostacolò il riconoscimento delle vetrate come una vera forma d'arte, relegandole a lungo nel campo negletto delle arti decorative e applicate, anche quando l'Ottocento neogotico, sull'onda di una nuova rivoluzione del gusto, ebbe «ripopolato le nostre chiese di vetrate», come annota con moderato compiacimento l'autore. Neppure allora, del resto, le vetrate sopravvissute a tante vicissitudini potevano considerarsi al sicuro. Le minacciavano, paradossalmente, la passione dei collezionisti, che provocò lo smontaggio e la vendita di interi cicli, e lo zelo degli storici dell'arte, promotori di rovinosi restauri, in un'età che non padroneggiava ancora appieno le metodologie necessarie. Vennero poi due guerre mondiali, combattute nel cuore dell'Europa delle cattedrali, e altri complessi perirono, benché i più importanti, come a Chartres, fossero smontati per preservarli dalla distruzione, offrendo l'occasione per nuove e più penetranti campagne di studio. Oggi la minaccia più grave è rappresentata dall'inquinamento atmosferico, che mangia e corrode il vetro, non diversamente dal marmo o dalla pietra, e richiede interventi sempre più sofisticati di conservazione e restauro. Il libro di Castelnuovo testimonia dell'estrema consapevolezza tecnica ormai raggiunta dagli specialisti nel trattamento delle vetrate medievali, ma dimostra altresì, nel modo più felice, che un approccio risolutamente tecnico non toglie nulla al nostro apprezzamento estetico di quei capolavori, rendendolo semmai ancor più consapevole ed emozionante. 1 Alessandro Barbero Enrico Castelnuovo Vetrate medievali Officine tecniche maestri Einaudi, pp. 424, L. 120.000

Persone citate: Alessandro Barbero, Einaudi, Enrico Castelnuovo, Torquato Tasso